Millennials: l’ altrove-luogo, l’ altrove-festa e parchi a tema. Una riflessione sui Millenials e sulle nuove generazioni. Come comunichiamo?
Riceviamo e pubblichiamo, articolo a cura di Marco Malinconico
*L’euforia di trovarsi in un parco a tema dove è sempre festa. Questo è il primo sentimento che proviamo quando pensiamo agli ultimi decenni del Novecento e ai primi anni Duemila. Tutto ciò che ci circondava sprigionava da una natura primigenia e incontaminata; naturalismo e poesia si fondevano nell’unicum caotico e indeterminato della realtà che non era mai univoca, unidirezionale; al contrario era un proliferare di mondi paralleli e possibilità indeterminate. Tutto era ammantato di dolcezza allorquando i nostri ideali erano ancora fari etici che ispiravano i nostri gesti e le nostre azioni.
I Millennials: come ci rivolgiamo a loro?
Come rivolgerci alle nuove generazioni dei millennials per illuminarle sul nostro stato dell’essere, sul nostro modo di concepire la realtà che ci circondava? Innanzitutto, suggerirei tale frase: immaginate un enorme parco a tema? Come una Disneyland del passato? Tale parco pertiene a uno stato dell’essere ancorato a un naturalismo primevo e favoloso. Tutto è festa. Provate a immaginare la parabola del mondo Disney, dal periodo Classico al cosiddetto Rinascimento.Oggi si è abituati al trash e ai prodotti fallimentari; tuttavia, un tempo non era così. Un tempo i classici Disney erano pura poesia, facevano riferimento a una realtà in cui l’etica della poesia e della natura non erano ancora state sostituite dall’etica del consumo e del capitale cieco e sfrenato. O almeno così era a un certo livello dell’intrattenimento, che nei casi estremi non si distingueva dalla cultura, o almeno da un certo tipo di cultura. E’ indubbio che oggi qualcosa nell’ambito dell’intrattenimento e del discorso sociale non va: con la fine delle ultime utopie del mondo prototecnologico è tramontato un universo-immaginario. Quell’ universo-immaginario era stato plasmato da artisti e pensatori che erano ancora in grado di concepire un ordine delle cose migliore-e-diverso: in quasi tutte le sue forme inoltre, non poteva sfuggire al sentimento culturale e spirituale che informava la natura sociale pre-smartphone, impregnata di cultura libresca. Dunque un immaginario fatto di ideali di conservazione e rottura, antitetici nelle loro varie declinazioni.
L’altrove mediatico
A ciò si affiancava la necessità del mondo dell‘intrattenimento di offrire una via di fuga che agisse non solo dal di fuori, ma su se stessa e si integrasse nella realtà popolare con energia, tramite il ricorso ad un espediente già noto a certa narrativa e cultura novecentesca: l’esotismo. L’esotismo è stato il collante più forte di tutta la vicenda culturale, ideologica e socio-politica del secondo ‘900.L’esotismo, oltretutto, era (ed è tutt’ ora) un Altrove; interminabile ricerca. Tale ALTROVE racchiude infatti molteplici significati. Ma il vero punto di forza di tali valori semantici è che non si escludono a vicenda, come ci si aspetterebbe in questo caso: si unificano, confluiscono l’uno nell’altro. L’ altrove era ricerca di un luogo fisico ed esotico; un approdo fuggevole cui si accedeva tramite la lettura, la televisione, e anche con il semplice fantasticare o raccontare storie; tale esotismo tuttavia, non aveva delle coordinate fisiche ideali e putative per chi volesse accedervi. Era un altrove-stato e quindi era anche un’idea di società, frutto dell’utopia tardo novecentesca.
Un grande parco a tema
Era altrove-società, altrove-rottura, e infine si, altrove-festa. Quest’ ultimo lo si ravvisa in tantissime cose del passato e del mondo pre-smartphone. Per rendere l’idea ai post millennials potrei fare una breve descrizione del genere: immaginate di entrare in un immenso parco a tema dalle scenografie vintage e di muovervi al suo interno con la gioia ed euforia propria dei bambini. Bene: il tema del parco è “il futuro”. E tutti credono sia grandioso. Allo stesso tempo, in questo parco, tutto è gioco, tutto è festa. Non un semplice paese dei balocchi, ma paese dei balocchi e degli ideali. E il biglietto di ingresso per questa avventura a suo modo fantastica è proprio l’ideale. Dunque: chiunque volesse parteciparvi con un minimo di coinvolgimento non può fare a meno dell’ideale. L’ altrove luogo-festa, infatti, era ben visibile soprattutto nell’ambito di un certo tipo di intrattenimento, e in particolare di quello legato all’ambito televisivo e musicale.
L’altrove-festa come filtro
Come non ricordare i vari programmi musicali che andavano in onda sui principali canali televisivi, in particolari giorni della settimana e in determinati periodi, come il Festivalbar o TOP? Quanti ricorderanno i leitmotiv della musica popolare ed elettronica, che privi spesso dell’elemento culturale, accentuavano l’ idea di festa, di divertimento? Era una realtà consolidata che ancora serbava qualche forma di speranza nella cultura e nell’ideale dell’utopia. Prendete come esempio le principali esibizioni musicali di artisti nei programmi su detti, come Top o il Festivalbar (e già ci troviamo nella fase calante dell’epoca post-futurologica).Ad esempio, l’esibizione alquanto priva di valore culturale o musicale di Haiducii e del suo tastierista del 2004: come detto non stiamo parlando di valore strettamente artistico e musicale (benché se rapportato alla musica e ai generi musicali di tendenza oggi, il brano di Haiducii era tutt’altro che scadente).Oppure, vedete l’esibizione di Alizee, (che come contante era passabile, ma come ballerina lasciava molto a desiderare.) O ancora certa musica elettronica di scarso valore artistico e musicale degli anni ’90 come la versione dance di voglio vederti danzare di Battiato; o i brani più famosi degli Aqua, degli stessi 883, eccetera. Tutto ciò serve a evidenziare come molti aspetti dell’esistenza erano filtrati, soprattutto nell’ambito dell’intrattenimento, dall’ altrove-festa.
Esotismo
Anche se nell’integrare le varie sfumature dell’esotismo si giungeva a una pluralità semantica che ne ridimensionava il carattere anarchico, di rottura, anticonformista o se l’ideale accettava quella forma di realtà, l’altrove, le varie declinazioni dell’altrove non si divoravano a vicenda, ciascuno si incorporava nell’altro; al più uno prestava un addentellato all’altro. E da questa constatazione il paradosso della modernità traspare chiaro: laddove allora si combatteva per cambiare il mondo, per far trionfare i messaggi di pace, uguaglianza, libertà, oggi si combatte – per lo più con la tragica rassegnazione di essere stati sconfitti definitivamente – o per tornare a uno stato di normalità, o più frequentemente, per impedire una distopia già avviata (come ad esempio prevenire Il disastro ambientale).La distopia odierna è come se fosse già avvenuta: noi ne stiamo raccogliendo i frutti, i rimasugli, le briciole, che a mano a mano saranno sparsi dovunque se non prendiamo coscienza del fatto che non serve a nulla sperare nel cambiamento se non ci impegnano a fondo nell’attuarlo. La spazzatura di serie TV e film, nonché di programmi che ormai dominano i palinsesti, per non parlare dell’osceno spettacolo digitale di social media (ripugnante nelle sue declinazioni ordinarie, vedasi ad esempio il fenomeno delle influencers) e pubblicità hanno terribilmente contribuito alla distopia attuale, ma sembra che una buona dose di entusiasmo e partecipazione provenga in primis dalla gente comune, e soprattutto dalle nuove generazioni.
La vita che non viviamo
La vita di oggi non è realmente vissuta, né tanto meno legata a vincoli per così dire etici e culturali potenzialmente attuabili o evolvibili, ma semplicemente è una vita in cui l’esotismo e l’altrove non esistono più: tale consapevolezza o convinzione è quasi una nuova ferita freudiana, ma non solo: l’ideologia stessa è venuta meno, insieme con l’ utopia. Ciò che rimane dell’ideologia, dell’utopia e del futuro è una moltitudine di spettri, che non hanno nulla in comune con l’attuabilità, con l’azione: possono influenzare, possono precludere l’azione, ma non sono essi stessi azione. Ora le redini del mondo sembrano essere affidata ad un Grande Altro che indovinate un pò: non esiste. Non esiste nella misura in cui pretendiamo di conoscere il G.A., non esiste perché è solo un’ idea astratta di potere: nel senso che pertiene a una sfera della realtà esterna alla volontà e all’utopia: questo ci basti sapere – non un gatto di Schrodinger.
La presa di coscienza
Se a livelli microscopici può accadere l’ impensabile, l’ imprevedibile, al livello macroscopico sembra siano più applicabili i principi classici. Quindi, se noi potessimo agire metaforicamente a livello microscopico come ci comporteremmo? Direi agendo non solo dall’interno verso l’esterno; nel senso che il cambiamento deve essere bidirezionale: dall’interno verso l’esterno e dall’ esterno verso l’interno. Ritornando alla questione nostalgia o meglio hauntologia (nell’accezione propria del filosofo Mark Fisher) ci sono due aspetti principali da prendere in considerazione: il primo riguarda la presa di coscienza e l’accettazione: nel momento in cui riconosciamo – e non perché lo scriviamo sui social – che c’è qualcosa che non va, gettiamo le redini per una presa di posizione volta al cambiamento. Possiamo trascorrere la vita nell’attesa della morte, senza mai muoverci da tale posizione pur non facendo nulla; ma questo vale se ci chiudiamo nel nostro mondo e non condividiamo le nostre idee con gli altri, e con chi la pensa come noi: se molti di noi condividessero un percorso comune di crescita e progresso il mondo cambierebbe in meglio perché l’umanità influisce sulla percezione della realtà. In secondo luogo, c’è la necessità di un ritorno al naturalismo o quanto meno all’esotismo e all’ altrove.
Linee di pensiero
Non possiamo liquidare il naturalismo o l’altrove come inganno deliberato di certa industria culturale e dell’intrattenimento: al contrario l’altrove festa dovrebbe essere presente in una società spensierata che gode di un certo benessere (come si presume dovrebbe essere un occidente ricco e sviluppato). L’ altrove non appartiene solo al passato o al naturalismo; al contrario, ci può essere altrove e naturalismo anche nel futuro più remoto. Un esempio di questo assunto è il retrofuturismo e i vari filoni della fantascienza del secondo Novecento (come il cyberpunk). Sotto questo aspetto lo spettro dell’ hauntologia, provenendo da un origine indefinita è anche ritorno dell’ altrove; o meglio, lo spettro reca con sé informazioni, tracce, dall’ altrove da cui proviene e dove è la sua origine. Ma lo spettro è noi e noi siamo lo spettro: “esteriorizzare” lo spettro non vuol dire far si che agisca dall’interno verso l’esterno: lo spettro è un doppio, dal di dentro esso conferisce virtù medianiche, ci collega ad altri mondi e sistemi planetari (visioni della realtà) dal di fuori è doppio oggettivato, fuggevole presenza infestante. Ovviamente, è indispensabile scacciare l’impressione che l’idealizzazione e la riformulazione valgano di per sé a una concezione ex nihil di una realtà che non c’è, o che è solo nella mente di un nostalgico sconfitto.
Hauntologia
L’ hauntologia reca nel suo nome la chiara visione di una realtà che non è solo nostalgia e che concerne non solo la perdita, ma l’incapacità di rinunciare allo spettro-entità che è presente e agisce, sebbene virtualmente, anche nell’istante attuale. Quando parliamo. ad es. di revival, di parco o di festa a tema e di nostalgia in generale non parliamo automaticamente di hauntologia: si può parlare di hauntology solo qualora fosse contemplato, in questo processo, l’instaurarsi di un dialogo con lo spettro o una qualsiasi forma di scambio spettrale. A partire da questa definizione l’hauntology si presenta sottoforma di una barra di intensità luminosa, dinamica e personale: maggiore è la luce, maggiore è la presenza dello spettro: una luce fioca equivale a un revival o ritorno senza spettro, e quindi a una nostalgia formale priva di hauntologia. Molti remake del cinema, ad esempio, che hanno un’ambientazione nel tempo passato, o hanno una forma di contatto con il passato, sono strettamente nostalgici ma non hauntologici. Ovviamente il confine che separa le due estremità dell’intero “spettro” non è netto: per questo motivo è comodo identificare la presenza dell’ hauntology e quindi dello spettro come una barra di energia luminosa variabile, dinamica e individuale.- l’ altrove spettro. Dunque, ritornando all’ inizio, il parco a tema del titolo cosa esattamente rappresenta? La risposta potrebbe essere la seguente: è un luogo, un ideale, uno stato dell’essere, eccetera. Tuttavia, in realtà, questo è ciò che è ora, o più propriamente ciò che noi pensavamo fosse. È il passato, non il presente o il futuro.
Il luogo fisico
Oggi è un luogo mentale e fisico, un “luogo dicotomico”, che si può inverare (cioè sceverare) solo con la forza della mente e del pensiero; solo nel dominio della mente si realizza la nascita di tale luogo, e quindi la sua essenza-assenza, assenza-presenza, la sua definizione di altrove; e non nella sua metà opposta e complementare: quella del luogo fisico. Il luogo fisico resta inaccessibile perché non si conosce la sua origine, né il modo per accedervi. E inoltre accedervi implicherebbe un cambiamento che viola i principi della biologia. Se l’accesso all’ altrove non può fare a meno della mente, e l’accesso al luogo fisico è irrealizzabile, ci si ritroverà in due luoghi nel medesimo istante: lì e qui. Allo stesso tempo si deve fare una precisazione: la carica nostalgica o più specificamente hauntologica non concerne una concezione passatista e catastrofica della realtà: innanzitutto, la dimensione da cui scaturisce è sempre una dimensione culturale e intellettuale (dunque non c’è spazio per le cose vili); al più si possono soggettivamente interpretare, alla luce di presupposti “errori fatali ” che costituiscono cartelli di non ritorno, drastici cambiamenti come eventi negativi o eventi anticipatori di eventi negativi.
Tecnologia
È indubbio dunque che bisogna avere, per sostenere un peso simile, una sensibilità culturale intellettuale non indifferente. Cosa che i teorici dell’ Hauntology hanno; e in abbondanza. Fra i molti Mark Fisher che nelle sue opere più illuminanti ha fornito una sintesi dei principali meccanismi alla base del mostruoso meccanismo della lenta cancellazione del futuro. Un altro fautore della teoria hauntologica, il critico musicale Simon Reynolds , in un passo illuminante del suo libro sul Post Punk fornisce una sintesi della triste vicenda che riguarda noi millennials, che ora ci troviamo nel futuro; proprio quello in cui avevamo riposto fiducia; il futuro pieno di cambiamenti, o quello in cui tutto resta uguale (ed eccovi servito il paradosso.)Ma non era certo il futuro che attendevamo. Infatti, afferma Reynolds: “la prosaica realtà di ciò che un tempo ci appariva fantastico e avanzatissimo è emblematica di come la nostra idea di futuro si sia gradualmente ridimensionata negli ultimi trent’anni. Non che il futuro non sia arrivato, ci siamo dentro, per molti versi, ma si è insinuato nelle nostre vite in sordina“. Subito dopo aggiunge: “[…] In quanto traguardi tecnici, la compressione dei dati e la miniaturizzazione delle tecnologie di comunicazione non sono meno incredibili delle stazioni spaziali e dei guerrieri robot che un tempo immaginavamo come elementi dello scenario quotidiano del futuro. Il problema è che il micro sembra molto meno eccezionale del macro. E poi, cosa ce ne facciamo noi di tutte queste meraviglie tecnologiche?“
Il rapporto Millenials – digitale
Documentiamo ossessivamente la nostra vita, chattiamo con gli amici, traffichiamo in intrattenimento codificato digitalmente, troviamo ristoranti, spettegoliamo sui vip e, come discusso qui, ci crogioliamo nella nostalgia della cultura pop che archiviamo freneticamente sul web… Dal punto di vista culturale, nulla di particolarmente nuovo e poco di davvero interessante. Il futuro dovrebbe essere eroico e glorioso, ma le attività (o «passività»?) consentite dalla nuova tecnologia ricordano la fase calante e introspettiva di un impero, non quella estroversa e proiettata audacemente in avanti. ”Qui Reynolds contrappone lo slancio benevolo e preteso in avanti del futuro atteso durante la fase finale dell’apogeo delle utopie novecentesche, quella virtuale, al futuro microscopico e miniaturizzato del presente, di cui ne sottolinea il carattere prosaico; il futuro che si profila ancora oggi davanti a noi, infatti, somiglia più alla fase calante di un impero che non alla sua fase di espansione e di gloria. Il micro, sottolinea il critico statunitense, è meno interessante del macro; così come la prosa ha meno fascino della poesia. Qui forse si cristallizza il principale disagio della nostra epoca: la sensazione di non aver nulla da cogliere, da articolare; di vivere una realtà prosaica, di partecipare ad una volontà collettiva che non solo ha rinunciato ab aeterno a quella contenzione lirica verso l’ altrove, ma che da quell’ altrove viene definitivamente allontanata. Così ci muoviamo nel grande parco a tema dei sogni perduti: nel futuro mai realizzato le luci sono brillanti, la gente è gaia, i nostri volti emanano una pura e candida gioia; proviamo quell’ euforia, quel brio di sentirci come bambini.
Disillusione
Ci sono giostre e ottovolanti, quello della pace, della vera libertà, del cambiamento, del trionfo della poesia; i programmi trasmettono tanti film e serie TV, e noi facciamo tutto, ma proprio tutto per non rimpiangere nulla. Vediamo tanti spettacoli su principesse rinchiuse da perfidi stregoni in castelli oscuri e liberate da principi azzurri; di lotte combattute e vinte contro perfidi tiranni; di guerre mitologiche e immani tragedie; di speranze, gioie, amori. Percorriamo castelli fatati e sale di specchi che somigliano a regge e palazzi; ci sentiamo re e regine dell’intero universo, camminiamo su verdi prati adornati di fiori, e poi corriamo, camminiamo, e corriamo, camminiamo, e ridiamo ancora. Poi usciamo all’aperto e saliamo sulle piccole astronavi che un giorno ci avrebbero portato nello spazio profondo e incantato, in compagnia di qualche robot amico e di tecnologie d’ avanguardia. E così per sempre. Invece, oggi, agli occhi del disilluso, quel parco è spoglio e disadorno.
Gli effetti
C’è freddo, le giostre crepitano e sono divorate dalla ruggine. L’erba è alta, e non ci sono spettacoli di fate e di streghe, di re e regine, di angeli e demoni, di buoni o cattivi, né gente allegra né visitatori di sorta. Tutto tace nel silenzio e in una pace terribile che scuote l’anima. Siamo qui, dopo tutto questo tempo, nella lunga notte della fine della storia. Eppure, come giustamente sosteneva Fisher, tale disgrazia non ci deve far perdere d’ animo; né gettarci nello sconforto assoluto. La fine della storia potrebbe trasformarsi, come per incanto, in una nuova opportunità. E non mi sembra ci sia modo più appropriato di concludere la mia riflessione con le profonde e incisive parole di Mark a riguardo: “La lunga e tenebrosa notte della fine della storia va presa come un’opportunità enorme. La stessa opprimente pervasività del realismo capitalista (l’ idea che non c’è alternativa al capitalismo n.d.a.) significa che persino il più piccolo barlume di una possibile alternativa politica ed economica può produrre degli effetti sproporzionatamente grandi.
L’evento più minuscolo può ritagliare un buco nella grigia cortina della reazione che ha segnato l’orizzonte delle possibilità sotto il realismo capitalista. Da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile”. Spero tu abbia ragione, caro Mark. Lo spero con tutto me stesso.*(Il seguente articolo dovrebbe essere a breve presente sulla rivista magazine per cui sto pubblicando) **il frutto dell’ intero ragionamento è il seguente: la storicizzazione avverrà solo nel caso in cui avremo ancora meno libertà di quelle che abbiamo adesso. In caso contrario, avremmo il semplice abbandono e l’ oblio.