A proposito dei giorni cruciali che stiamo vivendo
A cura di Rino Malinconico
1) Nel 2003 Jürgen Habermas e Jacques Derrida, tedesco l’uno e francese l’altro, firmarono assieme un manifesto politico-culturale sull’Europa, redatto concretamente da Habermas ma condiviso da Derrida, che con lui aveva preventivamente discusso i contenuti. Questo avveniva alcune settimane dopo l’invasione dell’Iraq, avviata il 20 marzo da un gruppo di Stati autodefinitisi “volonterosi”. Quella nuova guerra costituiva un innegabile vulnus del quadro internazionale di regole poiché non c’era alcun mandato dell’Onu, il quale, sulla questione delle presunte “armi di distruzione di massa” possedute dall’Iraq, s’era limitatosi a inviare delle apposite ispezioni per verificare la veridicità di quanto il governo americano e il governo inglese insistentemente affermavano. Il testo di Derrida e Habermas apparve sul quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung del 31 maggio 2003 e fu rapidamente ripreso, per la notorietà dei due filosofi, da moltissimi giornali, soprattutto in Europa. Non si trattava, infatti, di parole scontate.
Sul piano specificamente politico-culturale si metteva in luce una disarmonia di fondo, e di più antica data, tra la posizione dell’Europa continentale e la posizione del mondo anglosassone, che l’invasione dell’Iraq aveva in qualche modo svelato. La tesi che ne derivava era che si dovesse risolutamente archiviare il ruolo di guida morale e culturale, e non solo politico-economica, assunto nella seconda metà del XX secolo dagli USA, in special relazionship col Regno Unito. Non reggeva più l’idea che si trattasse di Paesi (e popoli) “naturalmente vocati” alla libertà.
Ma l’affermazione più interessante di quelle pagine, a rileggerle oggi, concerne la descrizione della “identità europea”, considerata una realtà piuttosto evidente dai due autori, che la fissano in sette precise caratteristiche: 1) la secolarizzazione, ovvero “la privatizzazione sociale della fede”, nel senso che “dalle nostre parti è difficilmente immaginabile un presidente che dà inizio alla sua attività quotidiana con una pubblica preghiera e che collega le sue decisioni politiche a una missione divina” e ciò ha conseguenze assolutamente positive per la cultura politica; 2) il primato dello Stato sul mercato, nel senso che un tratto comune ai cittadini europei è di aver una “fiducia relativamente ampia nelle prestazioni organizzative e nelle capacità di governo dello Stato, mentre sono scettici circa la capacità di prestazioni del mercato”; 3) la solidarietà prima dell’efficienza, con una chiara preferenza per le “garanzie di sicurezza dello Stato del benessere e per le norme solidaristiche” 4) lo scetticismo verso la tecnica, al punto che si potrebbe parlare di una mentalità europea caratterizzata da una “spiccata tendenza alla «dialettica dell’Illuminismo»”; 5) la consapevolezza dei paradossi del progresso, tanto che “nei confronti dei progressi tecnici non si nutrono speranze eccessivamente ottimistiche”; 6) il ripudio del diritto del più forte, resa evidente dal fatto che “la soglia di tolleranza verso l’uso della violenza contro le persone è relativamente bassa”; 7) il pacifismo in base all’esperienza storica delle perdite, che si concretezza in un diffuso “desiderio di un ordine internazionale multilaterale e regolato giuridicamentex … nel quadro di un’ONU riformata.”
La conclusione del ragionamento è scopertamente ottimista sul ruolo pacifico che l’Europa continentale potrebbe e dovrebbe giocare sia rispetto al proprio destino e sia rispetto ai destini del mondo. In direzione della cooperazione sovranazionale la indirizzerebbero, pressoché spontaneamente, le stesse sofferenze e orrori che hanno costellato la sua storia. E spingerebbe in tale direzione finanche il gravoso fardello del passato coloniale nei rapporti tra l’Europa e gli altri continenti:
“Ogni grande nazione europea ha vissuto un periodo di fioritura delle ambizioni imperiali e, ciò che nel nostro contesto è ancora più importante, ha dovuto assimilare l’esperienza della perdita di un impero. Questa esperienza del declino è legata in molti casi alla perdita di imperi coloniali. Col crescente distacco dal dominio imperiale e dalla storia coloniale, le potenze europee hanno anche avuto l’occasione di porsi a una distanza riflessiva da se stesse. Hanno così potuto imparare a percepire se stesse, dall’angolo visuale dei vinti, nel dubbio ruolo dei vincitori che vengono chiamati a render conto della violenza di una modernizzazione e uno sradicamento imposti dall’alto. Ciò potrebbe aver favorito l’abbandono dell’eurocentrismo e aver dato le ali alla speranza kantiana di una politica interna mondiale”. (Cfr. J. Habermas, L’Occidente diviso, Laterza, Bari 2007, pp. 29 – 30).
2) Stiamo parlando, ovviamente, di uno scritto datato, che la storia, a distanza di vent’anni, ha chiaramente smentito e che già allora presentava vistosi limiti interpretativi. Per dirne uno, l’Europa continentale di cui parla non è quella geografica dall’Atlantico agli Urali, bensì semplicemente l’Europa Occidentale, ovvero l’Occidente atlantico senza gli USA e la Gran Bretagna (col suo corredo di Canada e Australia); e per dirne un altro, dà per avvenuto il superamento delle “relazioni imperiali” e non solo coloniali, per cui non contempla neppure alla lontana la categoria di “neoimperialismo”; e infine, per dirne un terzo, sembra quasi che il vulnus delle regole internazionali nasca proprio con l’invasione dell’Iraq, quando invece, per restare cronologicamente nei paraggi, il 2003 era già stato preceduto dai bombardamenti di Belgrado del 1999 e dalla invasione dell’Afghanistan nel 2001.
L’ho riproposto tuttavia al lettore, in quanto utile avvio del ragionamento. Esso, infatti, è visibilmente costruito – questo il mio secco giudizio – su taluni vistosi fraintendimenti delle effettive caratteristiche storiche dell’Europa. Sono fraintendimenti rimasti platealmente inalterati nel dibattito pubblico. Anzi, proprio gli ultimissimi, inattesi sviluppi della “guerra mondiale a pezzi” stanno rilanciando, seppure non con la profondità e l’eloquenza dei due grandi filosofi, l’idea che esista davvero, in parte sul piano effettivo e in parte come potenzialità, il “primato culturale e morale” dell’Europa continentale; il quale potrebbe addirittura trasformarsi in primato politico-militare, se solo i governanti e i popoli Io volessero per davvero…
In sostanza, io penso che la questione teoreticamente e politicamente più urgente sia proprio “l’Europa”. Essa è l’autentico sconosciuto dei discorsi sulla guerra e sulla pace. E il paradosso è che si tratta di un oggetto sconosciuto anche in riferimento agli stessi avvenimenti europei. Per dirla in modo più chiaro, io ritengo che si sia davvero esagerato, ed esagerato da più parti, nell’interpretare la guerra in Ucraina come un conflitto che contrappone essenzialmente gli Stati Uniti e la Russia. Non che questo elemento non ci sia stato e non abbia tuttora il suo peso; ma la sua accentuazione ha messo in secondo piano, e ha inopinatamente velato, la dimensione fondamentalmente europea della guerra.
Ha pesato, in questa torsione, la convinzione – diffusa pressoché in tutti gli ambienti culturali e in tutte le aree politiche – che esistesse per davvero un Occidente indifferenziato, un omogeneo tutt’uno tra le due sponde dell’Atlantico, con alla testa, per gli esiti obiettivi della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti d’America, da alcuni sbrigativamente considerato un ingombrante e fastidioso padre-padrone, e da altri visto, con maggiore realismo, alla stregua di un necessario primus inter pares. Di fatto, neppure i conoscitori più esperti di vicende europee hanno colto, nella sua interezza, il ruolo giocato progressivamente – e con vari gradi di consapevolezza – dai Paesi europei nella vicenda ucraina. E hanno simmetricamente messo in ombra come anche per la Russia la questione centrale, ancor prima degli equilibri mondiali, fosse proprio l’assetto europeo.

3) Orbene, se provassimo ora a riconsiderare l’intera questione ucraina partendo dal contesto europeo – proprio per come esso si è man mano sviluppato dopo la conclusione della Guerra Fredda -, probabilmente riusciremmo a vedere più cose di quelle che abbiamo visto finora. Intanto diverrebbe subito più chiaro il punto di vista russo. Qual era, infatti, l’inquietudine di Mosca? La risposta che ci siamo razionalmente dati – o almeno, che si sono date le persone che non guardano agli avvenimenti storici con la logica delle tifoserie contrapposte – è stata, in sostanza, la seguente: la preoccupazione fondamentale di Putin “è di non avere la NATO ai confini”. Ma con questa affermazione sottintendevamo: “non avere gli Stati Uniti ai confini”.
Lo ripeto: non è che questo elemento non ci sia stato e non abbia avuto, e non continui ad avere, un importante peso. Come un peso significativo l’hanno certo avuto le concause che la logica raziocinante cui siamo abituati non avrà certo mancato di squadernarci davanti: dagli scossoni sempre più intensi provocati, a scala mondiale, dal crollo accelerato della globalizzazione economica (a partire dalla crisi economica del 2008) al connesso e spettacolare dissolvimento dell’unipolarismo a stelle e strisce, che pure sembrava così stabile dopo i fatti del 1989 – 1991 che chiusero la Guerra Fredda. Sono tutte cose che hanno avuto, e hanno, un peso reale nella determinazione degli avvenimenti storici del nostro tempo, come pure nella specifica vicenda ucraina. Ma l’aver visto gli Stati Uniti e le loro vicissitudini come preminenti, se non addirittura come unici fattori storici, è stato un autentico errore. Indubbiamente gli USA hanno continuato a essere centrali negli ultimi trent’anni. Ma lo sono stati solo considerando in blocco l’insieme del trentennio. Non è che siano stati centrali sempre e dappertutto. E forse proprio sullo scacchiere europeo avremmo dovuto considerare altri fattori come fondamentali.
Il punto è che con la fine della Guerra Fredda si sono rapidamente determinati, nell’Est europeo, due fatti di grande rilevanza storica. Anzitutto c’è stata l’autonomizzazione reale, e via via sempre più perentoria, degli Stati dell’ex Patto di Varsavia dal loro potente vicino. Capifila di questa dinamica Polonia e Cecoslovacchia (poi rapidamente suddivisasi in Repubblica Ceca e Slovacchia); ma in realtà il distacco è avvenuto con sorprendente accelerazione anche per l’Ungheria, per la Bulgaria e per la Romania. In sostanza, un’intera linea che va dal Mar Nero al Baltico – parliamo di più di 90 milioni di abitanti e di un territorio che è circa tre volte l’Italia – ha sciolto i legami con Mosca e ha infittito i rapporti con l’Occidente. Anzi, con l’ingresso nell’Unione Europea e con l’ingresso nella NATO, quegli Stati hanno assunto, verso Mosca, una postura che se è eccessivo definire di esplicito contrasto, si è sviluppata comunque nelle forme di una gelida antipatia.
L’altro processo, che si è rapidamente intrecciato col primo, è stata la creazione, anche in Europa, di sei nuovi Stati, resisi indipendenti nel contesto della dissoluzione dell’URSS. Di questi, solo uno, la Bielorussia, ha continuato a mantenere stretti legami con la Russia, mentre gli altri cinque – Estonia, Lituania, Lettonia, Moldavia e soprattutto Ucraina – hanno assunto un crescente atteggiamento di freddezza, se non di vera e propria revanche, nei confronti della Federazione Russa. E le tre repubbliche baltiche sono anche rapidamente entrate nell’Unione Europea e nella NATO, cosa che formalmente non è avvenuto per l’Ucraina e la Moldavia, sulle quali, non a caso, la tensione è divenuta progressivamente più forte e drammatica.
4) In breve, dal punto di vista del Cremlino la sempre più robusta e integrata linea dei Paesi che vanno dal Baltico al Mar Nero si è configurata, non poteva essere diversamente, come una sostanziale “frontiera ostile”. D’altronde, in diversi di quei Paesi s’erano mantenuti vivi sentimenti profondamente nazionalisti ed esplicitamente antirussi, che li portavano a considerare il rapporto con la nuova Mosca post-comunista alla stregua di un conto ancora in sospeso. In molti hanno spiegato questa circostanza con l’oppressione da essi subita nell’ambito della Cortina di ferro. E non è che questa spiegazione non abbia la sua parte di verità, come chiaramente dimostrato dalla invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968. Ma il contenzioso aveva, in realtà, più antiche e profonde radici. E in alcuni casi, pesava come un macigno proprio la storia tragica della Seconda guerra mondiale.
La Seconda guerra mondiale aveva infatti confermato, in Ucraina e in Ungheria, come pure in Romania e Bulgaria, un orientamento filotedesco (e non di rado filonazista) ben più ampio di quanto si è poi detto e scritto nel dopoguerra. Del resto, sia la Romania che l’Ungheria aderirono formalmente all’Asse Italia-Germania nel 1940, mentre la Bulgaria lo fece nel 1941 (cambiando poi fronte nel settembre del 1944). E se l’impegno bulgaro a fianco dei tedeschi restò abbastanza modesto, limitandosi alla occupazione di territori di confine in Grecia e in Serbia, le truppe rumene e magiare che parteciparono all’invasione della Jugoslavia (dall’aprile del 1941) e dell’URSS (dal giugno del 1941) furono consistenti. Soprattutto lo furono quelle della Romania, animate da un revanscismo aggressivo, avendo dovuto cedere la Moldavia nel 1940, occupata dai russi col beneplacito tedesco nell’ambito del Patto Ribbentrop-Molotov.
Quanto all’Ucraina – che aveva fatto parte fin dal 1922 dell’URSS (era uno degli Stati fondatori, il più importante dopo la Federazione Russa) – essa fu subito occupata dai tedeschi tra il giugno e il luglio 1941 nell’ambito dell’attacco alla Unione Sovietica; ma in buona parte si rivelò, per Berlino, “territorio amico”. Gli ucraini arruolati come truppe ausiliarie assommarono a oltre 250mila uomini, ed è noto che alcuni di quei distaccamenti si distinsero particolarmente nei massacri più efferati di ebrei e prigionieri russi (per citarne uno, è ampiamente provato il coinvolgimento, numericamente preminente rispetto agli stessi tedeschi, dei militi ucraini nella feroce strage di Babij Jar, l’ampio fossato nei pressi di Kiev dove furono uccisi, nella sola notte tra il 29 e 30 settembre 1941, ben 33771 ebrei ed ebree, come dettagliatamente attestato dalla pignola contabilità del comando tedesco).
5) Tra i paesi ex sovietici e ex Patto di Varsavia ridefinitisi come “linea ostile” a Mosca, il ruolo politicamente preminente è stato rapidamente assunto, negli ultimi due decenni, dalla Polonia, la quale non si è limitata a raffreddare i rapporti con la Russia e a collocarsi convintamente nell’Unione Europea e nella NATO, ma ha anche proceduto a un significativo riarmo. Di fatto, oggi come oggi, l’esercito polacco è, in Europa (eccezion fatta per la Russia e l’Ucraina in guerra), il più consistente sul piano numerico e uno dei più avanzati sul piano della tecnologia militare.
Pur con questo esercito particolarmente numeroso, la Polonia non può ovviamente dirsi una vera potenza militare. Ma è significativa la progressione che ha compiuto in direzione del militarismo. Se la sua spesa militare annua (secondo dati riferiti al 2022 da uno studio del SIPRI, l’affidabile Istituto svedese di ricerca sulla pace internazionale) sembra presentarsi ancora largamente inferiore all’Italia in termini assoluti (16 miliardi e mezzo di dollari contro i 33 miliardi e mezzo dell’Italia), di sicuro è ben maggiore in riferimento al Prodotto Interno Lordo (2,39% il dato polacco e 1,68% il dato italiano). Anzi, sul piano della percentuale di spesa militare, la Polonia è decisamente al primo posto in Europa (eccezion fatta, ovviamente, per Russia e Ucraina).
Orbene, anche nel caso della Polonia sono esistite corpose ragioni di contrapposizione con la Russia connesse alle vicende della Seconda guerra mondiale. Nella prima fase della guerra, dal settembre 1939 al giugno 1941, il territorio orientale polacco fu occupato, come è noto, dai russi, i quali attaccarono il Paese sulla base degli accordi con la Germania nazista stipulati col Patto Ribbentrop-Molotov, firmato il 23 agosto 1939 a Mosca e così chiamato dal nome dei firmatari, i ministri degli esteri di Germania e URSS. Si trattava di un “Patto di non aggressione” con durata decennale; che però aveva anche un riservato protocollo aggiuntivo, riguardante “i punti sui quali le Parti contraenti sono interessate nel campo della politica estera”. Ai governi e all’opinione pubblica mondiale vennero comunicati i soli 7 articoli del Patto e non i 4 articoli del protocollo aggiuntivo; ma le cose si chiarirono nel giro di pochissime settimane: il 1° settembre l’esercito tedesco varcava la frontiera occidentale della Polonia e il 17 l’armata rossa penetrava dalla frontiera orientale.
Fu davvero un fatale settembre, proseguito con le dichiarazioni di guerra alla Germania di Francia e Inghilterra (3 settembre) e con l’imposizione a Estonia, Lituania e Estonia di un Patto di assistenza e mutua difesa con Mosca (28 settembre), che prevedeva la presenza di truppe russe nei tre Stati (le tre repubbliche saranno poi rapidamente annesse dai russi nel giugno del 1940). La Finlandia rifiutò di firmare un dispositivo analogo e venne attaccata dall’armata russa il 30 novembre. Resistette però vigorosamente fino all’armistizio del 12 marzo 1940, trasformatosi, nello stesso mese di marzo, nel trattato di Pace di Mosca, col quale la Russia acquisiva il 10% del territorio finlandese. Poi, dal giugno 1941 al settembre del 1944, il conflitto russo-finnico riprese e fu ancora più cruento, sia perché a fianco dei finnici si misero i tedeschi e sia perché i russi furono sostenuti in particolare dagli inglesi. La conclusione di questa seconda guerra russo-finnica, inglobata nel più vasto scenario della Guerra mondiale, avvenne con la tregua del 19 settembre 1944, che costò alla Finlandia ulteriori concessioni territoriali, definite nel 1947 coi trattati conclusivi della Seconda guerra mondiale.
Tornando alle vicende polacche, io inclino a credere che ancora più mortificante dello stesso inizio sia stato, per la coscienza nazionale polacca, proprio l’esito della Guerra. Il Paese aveva subito immani distruzioni e contava un numero altissimo di caduti tra civili e militari – con più di 5 milioni e mezzo di morti, la Polonia figura al quarto posto della macabra graduatoria per numero di numero di vittime, dopo l’URSS, la Cina e la Germania (per avere un termine di paragone, basti pensare che le vittime di nazionalità italiana furono complessivamente, dal 1940 al 1945, poco più di 450mila) -; ma la sua aspirazione a tornare nei confini precedenti fu seccamente frustrata.
Detto in estrema sintesi, il nuovo Stato perdeva a est circa 185.000 km² e 15 milioni di abitanti, inglobati all’interno dell’URSS, nelle aree che poi, alla fine della Guerra Fredda, si sarebbero definiti come i nuovi Stati sovrani di Ucraina, Bielorussia, Lituania e Lettonia. E quelle perdite venivano solo in parte compensate a ovest (circa 110mila km² a spese della Germania). Per sintetizzarla coi numeri, lo Stato polacco dell’agosto 1939 comprendeva un territorio di 389.000 km²; ma l’ampiezza territoriale riconosciutagli nel 1945 fu di soli 312.000 km². In sostanza oltre 77.000 km² (più di tutta l’Italia meridionale, dall’Abruzzo alla Calabria) cessavano di essere polacchi. Insomma, senza neppure andare al passato più antico, e cioè al lungo periodo di controllo zarista del Paese, ritengo che la crudezza di questi ultimi numeri – definiti a Yalta da USA, Gran Bretagna e Russia, e poi sanciti con piccoli ritocchi nel 1945 e rimasti immutati dopo il collasso dell’URSS nel 1991 – spieghi, almeno in parte, il risentimento polacco verso la Russia e la Bielorussia. Risentimento che si intreccia, peraltro, al confliggere di interessi per il controllo del Baltico.

6) Non vorrei essere frainteso. Io non sostengo affatto che l’unica o più importante ragione di contrasto tra la Russia e i Paesi provenienti dall’ex Patto di Varsavia e dall’ex Unione Sovietica debba essere ricondotta alla Seconda guerra mondiale. Reputo però una mancanza obiettivamente distorcente il fatto che nella interpretazione degli avvenimenti sviluppatisi dalla fine della Guerra fredda in poi, un tale retroterra non sia stato preso neppure in considerazione. Questa dimenticanza – “dimenticanza”, ad essere buoni – ha inciso piuttosto riduttivamente soprattutto sulla lettura della posizione russa che si è data in Occidente. Anche nel caso di Mosca, infatti, la Seconda guerra mondiale bisognerebbe vederla come uno snodo decisivo.
Intanto lo è di sicuro sul piano soggettivo, in riferimento al senso comune: il ricordo della “grande guerra di patriottica” contro la Germania accomuna oggi in Russia tanto i nostalgici dello zarismo quanto i nostalgici dell’URSS. Vladimir Putin, che raccoglie dentro di sé entrambe le nostalgie, esemplifica questo diffuso sentimento con la convinzione che l’esito della Guerra Fredda sia stato “ingiustamente” catastrofico per la Russia proprio perché ha cancellato non solo la Russia storica degli zar, ma anche le specifiche conquiste politiche e territoriali della Seconda guerra mondiale. E se facciamo parlare i numeri lo scenario si presenta davvero come uno sconvolgimento. L’impero zarista aveva nel 1914 un’estensione di circa 22 milioni di km², di cui 5 milioni in Europa. La popolazione era di oltre 180 milioni di abitanti, e in stragrande maggioranza viveva nella Russia europea. Una quindicina degli attuali Stati europei e asiatici rientravano nei confini di quell’impero, come pure ampi territori appartenenti oggi ad altri Paesi. Per l’Europa si tratta di Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Bielorussia, Moldavia e Ucraina. E va ricordato che era inoltre sotto l’autorità zarista anche una parte consistente della attuale Polonia, compresa Varsavia.
Tutti queste territori, e altri in Asia, la Russia li dovette cedere alla Germania e ai suoi alleati (Austria, Turchia e Bulgaria) col trattato di Brest Litvosk (3 marzo 1918). Si trattò di un travaso gigantesco di terre e popoli. Per utilizzare ancora una volta i numeri, la Russia perdeva 56 milioni di abitanti, pari al 32% della popolazione del 1914. Poi, come è noto, la Germania del Kaiser perse la guerra, e i territori ex zaristi restarono o fuori dalla Russia o furono ricompresi negli esiti tumultuosi della guerra civile tra bianchi e rossi.
Sul piano internazionale il fatto veramente nuovo avvenne giusto alla fine degli anni Trenta, tra il settembre 1939 e la primavera del 1941, allorché l’Unione Sovietica di Stalin, col beneplacito della Germania nazista, ampliò di alcune centinaia di migliaia di km² il proprio territorio in Europa, a spese di Polonia, Finlandia, Repubbliche baltiche e Romania. Infine, dopo la vittoria sulla Germania, l’Unione Sovietica si vide riconosciuto un territorio di oltre 22 milioni di km², pari all’incirca all’estensione del precedente Impero zarista. E le cose restarono così dal 1945 al 1991, cioè fino, appunto, alla conclusione della Guerra fredda, quando la Russia si “ridusse” a una superficie di 17.098.242 km²: cinque milioni e passa di km² in meno rispetto all’epoca zarista e all’epoca sovietica. E questo spettacolare ridimensionamento veniva confermato anche dai numeri che concernono la popolazione: circa 25 milioni sono tuttora i russofoni domiciliati in Paesi diversi dalla Russia.
Insomma, fuori dai confini riconosciuti alla Federazione Russa nel dicembre 1991 (in quel mese, l’URSS cessò anche formalmente di esistere: prima con la creazione della Comunità di Stati indipendenti creata da Russia, Ucraina e Bielorussia con l’accordo del giorno 8, e poi con le dimissioni di Gorbačëv e l’ammainarsi della bandiera sovietica sulle mure del Cremlino avvenuti il giorno 25), si situano tuttora amplissimi territori che i molti nazionalisti nostalgici dell’Impero zarista e dell’Età stalinista considerano “naturalmente russi”: per storia, lingua e tradizioni culturali. Agisce cioè, con corpose conseguenze politiche e culturali, una visione oggettivamente aggressiva del proprio interesse statale, che poggia su una declinazione esplicitamente imperiale dell’identità nazionale e si alimenta dei miti sciovinisti di difesa della cristianità ortodossa e della missione di civilizzazione euro-asiatica che spetterebbe ai russi. Certo, si può anche sbrigativamente concludere che si tratti di una anacronistica coscienza storica. Ma un simile giudizio non modifica in nulla il punto storiograficamente decisivo: non capiremo mai fino in fondo le ripetute aggressioni putiniane nel Caucaso e l’invasione odierna dell’Ucraina se non prendiamo in seria considerazione sia il radicato sentimento nazionalista dell’attuale società russa e sia il profondo risentimento che attraversa l’insieme della realtà russa per la perdita dei territori appartenuti prima all’Impero zarista e poi all’URSS.
7) Il risentimento è una forza storica reale. Nelle vicende dei popoli e degli Stati, ma in verità anche nelle vicende più particolari e immediate degli esseri umani, l’idea che gli avvenimenti procedano immancabilmente sulla base dell’interesse e degli affari è davvero riduttiva. Occorrerebbe, piuttosto, mantenere salda la visione d’insieme, comparando la totalità delle spinte e la forza delle concrete dinamiche di soggettivizzazione storica. E questo richiamo metodologico vale per la Russia, ma vale per l’Occidente. Vale per ciascuno dei Paesi dell’Occidente. Vale in realtà per tutto il mondo.
In altre parole, la mia sottolineatura, a proposito della guerra in Ucraina, è che bisogna prendere in debita considerazione il versante specificamente europeo delle questioni, evitando di ricondurre univocamente le cose agli interessi economici e geopolitici a scala globale. Non si fraintenda: so bene che una grande potenza nucleare agisce costantemente anche sugli interessi globali; e so parimenti come proprio dentro il contesto degli interessi globali si situino le consistenti ragioni di contrasto che permangono tuttora tra Mosca e Washington, contrasto che è vieppiù complicato dalla presenza sullo scacchiere mondiale della Cina e di altre potenze emergenti. Ma la politica globale delle superpotenze, come pure delle potenze emergenti, non cancella affatto l’importanza dei grovigli di contraddizione che storicamente si sviluppano negli scacchieri specifici. Anzi se ne alimenta ulteriormente; e in determinati passaggi gli stessi interessi globali cedono rapidamente il passo alle contraddizioni dei contesti specifici e vanno al loro rimorchio.
E a mio parere è proprio questo che sta accadendo nell’attuale passaggio storico: con i molti nodi irrisolti dell’Europa e il suo costitutivo disequilibrio che tornano al centro nella storia mondiale. Tornano per la Russia; ma a ben vedere tornano anche per l’Occidente, che proprio sull’equilibrio europeo e sulle guerre europee sta conoscendo inaspettate dinamiche di disarticolazione e differenziazione. Che gli Stati Uniti abbiano progressivamente agito nel corso del XX secolo e all’avvio di questo XXI con una logica palesemente imperiale, credo sia una convinzione abbastanza diffusa. E poiché corrisponde abbastanza alla verità storica, non ritengo che, almeno in questa sede, valga la pena di soffermarsi più di tanto sugli interessi imperiali statunitensi.
Ritengo invece piuttosto necessario appuntare l’attenzione su alcuni Stati dell’Europa occidentale: anche perché si è prodotta col tempo, e permane tuttora, una corposa opacità interpretativa sul versante europeo dell’Occidente. Penso, in sostanza, che per cogliere qualcosa di più preciso sul mondo che attualmente viviamo, si dovrebbe guardare da vicino soprattutto il versante europeo dell’Occidente. Chiedendoci, ad esempio, se siano stati davvero archiviati, nei Paesi che hanno avuto grandi imperi coloniali, il risentimento e la cultura imperiale.
8) Do per scontato che si sappia, almeno nelle linee generali, cosa sia stato il colonialismo europeo e quanto abbia pesato nelle vicende del mondo. Anche l’enorme espansione della Russia zarista fu una dinamica coloniale, nonostante la continuità territoriale dei territori asiatici con la Russia vera e propria; e indubbiamente coloniale è stato il potere statunitense nelle vecchie colonie spagnole di Cuba, Porto Rico e Filippine dopo la guerra del 1898. Ma ciò che comunemente si intende come colonialismo si riferisce specificamente ad alcuni Paesi dell’Europa Occidentale e, di conseguenza, alle relazioni tra l’Europa, l’Africa e l’Asia nell’intero arco temporale della Modernità.
Gli atlanti geografici della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento lo dicevano a chiare lettere che un terzo delle terre emerse del globo apparteneva a Sua Maestà Britannica. E la Francia seguiva a ruota. Anche Paesi di più ridotte dimensioni – come l’Olanda, il Portogallo e il Belgio -, nonché alcuni Stati di più recente formazione, come l’Italia e la Germania, possedevano estese colonie. E qualcosa manteneva, qua e là, ancora la Spagna. Di fatto, ancora alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, soprattutto la Gran Bretagna e la Francia (ma non solo loro) potevano sventolare le loro bandiere sulla quasi totalità del continente africano e dell’Oceania e su amplissime aree dell’Asia. E l’attuale dibattito storiografico ha opportunamente messo in chiaro come proprio il crollo della realtà coloniale – che si avviò nel corso della Seconda guerra mondiale e si completò nei 35 anni successivi – sia stato l’avvenimento con più profonde e durature conseguenze nella Modernità dispiegata. Quando succede – come è effettivamente successo tra il 1945 e il 1980 – che 43 colonie e 4 quasi-colonie, abitate dal 40% della popolazione mondiale, si rendono indipendenti dai governi europei, è del tutto evidente che si sta passando (lo diceva già nel 1964 il grande storico inglese Geoffrey Barraclough) dalla storia incentrata sull’Europa alla vera e propria storia mondiale.
Va anche sottolineato che i 35 anni della decolonizzazione videro agire più spinte. Ci fu, ovviamente, il risoluto impulso all’indipendenza dei popoli soggetti, o almeno delle loro classi dirigenti in formazione, che perseguirono un tale risultato talora puntando ad accordi di compromesso con gli interessi economici delle potenze coloniali e talaltra facendo assegnamento su più aperte dinamiche rivoluzionarie. Ma ci fu anche la pressione del nuovo organismo internazionale che sostituiva la Società delle Nazioni (nata già debole nel 1919 e poi andata in frantumi con l’avvio della Seconda guerra mondiale). La posizione critica dell’ONU dipese, in quegli anni, dalla attiva partecipazione competitiva delle due superpotenze Stati Uniti e URSS, entrambe ideologicamente estranee al colonialismo, seppure con altalenante coerenza. Di contro, le potenze coloniali europee resistettero il più possibile alle pressioni internazionali, come pure alle insorgenze popolari. Ci fu anzi un ripetuto “attivismo riformatore” delle politiche coloniali, immancabilmente teso a cambiare le forme e a mantenere la sostanza.
Il punto è che tutte e tre le “ragioni tradizionali” del colonialismo – ovvero: 1) l’auto-proclamato “diritto delle potenze” a utilizzare le materie prime e le risorse di lavoro che nei territori “incivili” dell’Africa e dell’Asia sarebbero rimaste altrimenti inutilizzate; 2) la presunta “missione civilizzatrice” dell’Europa, quasi un “obbligo morale” nei confronti delle “società arretrate” dell’Africa e dell’Asia; 3) la colonizzazione come sbocco comunque necessario dell’eccedenza demografica europea – avevano comprensibili difficoltà a essere non dico “rivendicate”, ma anche semplicemente accennate. Per quelle tesi, dopo la gigantesca orgia di suprematismo, oppressione e sterminio della Seconda guerra mondiale, non c’era più alcun reale “spazio politico-morale” di legittimazione. Il razzismo continuava, ma non lo si poteva più sbandierare apertamente. Come pure continuava la rapina di ricchezze e risorse, ma occorreva chiamarla con un altro nome.
Soprattutto l’Impero inglese e l’Impero francese hanno provato, in parte riuscendoci e in parte no, a resistere in nuove forme. In alcuni casi, la loro ostinazione – per esempio, la Francia in Indocina e in Algeria, l’Inghilterra in Kenya – ha significato guerre (e sconfitte) sanguinose; in altri casi, le trasformazioni economiche e giuridiche dei rapporti coloniali – per esempio, l’istituto del Commonwealth per le ex colonie inglesi e il Franco CFA per le colonie ex francesi dell’Africa – ha salvaguardato, non senza conflitti anche aspri e talora cruenti, l’influenza economica, politica e culturale della “madrepatria”. In ogni caso, considerando le cose nel loro insieme, i 35 anni della decolonizzazione hanno significato un colossale e ininterrotto arretramento per gli inglesi e i francesi.

9) Se sul piatto della bilancia mettessimo, da un lato, ciò che ha perso la Russia con la sconfitta della Guerra Fredda e, dall’altro. ciò che hanno perso Francia e Inghilterra con la decolonizzazione, non è affatto detto che il piatto penda dal lato della Russia. E forse è proprio il risentimento la cosa che più accomuna tutte e tre le potenze nucleari dell’Europa. Anzi, a me pare che le accomuni anche una sorda e insistente voglia di rivincita.
Si può anche fare dell’ironia sugli atteggiamenti di grandeur della Francia, ma le sue 300 testate nucleari, sviluppate e gestite in completa autonomia dagli Stati Uniti, rimangono un fatto concreto. Come pure è qualcosa di molto concreto la determinazione con la quale i governi di Parigi hanno costantemente agito dopo la perdita dell’Algeria nel 1962. In tutta l’Africa subsahariana ancora oggi non si incontrano soltanto ingegneri e uomini d’affari, ma anche militari francesi impegnati a collaborare a vario titolo coi governi. E quando le cose precipitano, o ci sono conti da regolare, si muovono con grande facilità anche le portaerei e i sommergibili. Nel 2011, fu proprio la Francia di Sarkozy, seguita a ruota dall’Inghilterra e poi dagli Stati Uniti, a spingere per il dispositivo Onu del 17 marzo che instaurava la no fly zone su tutto il territorio libico in aiuto dei ribelli anti-Gheddafi. E l’interpretazione di quel mandato fu subito smodatamente estensiva. Già due giorni dopo, ancor prima di pattugliare i cieli per bloccare gli aerei del presidente-colonnello – come appunto prevedeva la risoluzione –, gli aerei francesi bombardavano direttamente l’esercito libico. E per non essere da meno, nei giorni successivi anche inglesi e americani si unirono ai bombardamenti. Si ricorderà, peraltro, come la macabra conclusione di quella prima guerra civile libica, avvenuta nell’ottobre dello stesso 2011 con la sbrigativa uccisione di Gheddafi e di alcuni dei suoi figli, abbia visto ancora il protagonismo ostentato dei francesi al fianco degli insorti.
La logica brutale del “regolare i conti” ha caratterizzato stabilmente anche la Gran Bretagna. Nel caso della Francia con la Libia, il nodo era costituito dal Ciad e dalla sua ventennale guerra civile tra il 1978 e il 1987, coi libici e i francesi impegnati a sostenere le opposte milizie e a partecipare direttamente, a più riprese, ai combattimenti; nel caso della Gran Bretagna, il punto di frizione era costituito dal prolungato stato di inimicizia tra Londra e Baghdad nel Vicino Oriente. Già nel 1941 ci fu una rapida guerra tra i due Paesi, normalmente ma piuttosto arbitrariamente ricondotta all’ambito della Seconda guerra mondiale. In quell’anno, infatti, le truppe inglesi, che già avevano dagli anni Venti basi militari in Iraq, intervennero per ripristinare l’autorità del sovrano rovesciato da un colpo di Stato di ufficiali nazionalisti e filotedeschi. Ma in realtà la questione principale, per gli inglesi, era di salvaguardare il controllo politico, economico e militare del Paese, affidatogli in forma di “mandato” dalla Società delle Nazioni fin dall’agosto del 1920 e ininterrottamente mantenuto anche dopo l’indipendenza formale del 1932.
Dopo il 1945 i rapporti tra inglesi e iracheni si complicarono. L’Iraq, al pari di Egitto, Siria e Israele su altri versanti, divenne un obiettivo fattore di destabilizzazione geo-politica dei corposi interessi inglesi in Medioriente, arginato solo per qualche anno dal “Patto di Baghdad” stipulato nel 1955, che metteva assieme, in un impegno di “mutua difesa”, Iraq, Iran, Turchia, Pakistan e, appunto, Gran Bretagna. Di fatto, nella cruciale crisi di Suez del 1956 – che vide scontrarsi sul campo, da un lato, l’alleanza (non dichiarata pubblicamente) di inglesi, francesi e israeliani e, dall’altro, gli egiziani, guidati dal presidente Nasser e sostenuti politicamente sia dagli USA che dalla Russia – fu proprio l’Iraq a svolgere, assieme ad Aden, il ruolo di base logistica per la breve occupazione anglo-francese del canale.
Ad ogni modo, nel 1958 le forze nazionaliste riuscirono ad abolire monarchia, dichiaratamente filo-inglese, e indirizzarono l’Iraq verso una maggiore autonomia politica ed economica, passando rapidamente dall’iniziale nasserismo alla sostanziale dittatura politico-militare del partito Ba’th. Per gli inglesi, che il 30 maggio 1959 dovettero chiudere l’ultima base militare nel Paese, fu uno smacco cocente. Conservarono comunque, per oltre un decennio, una significativa presenza economica attraverso il colosso petrolifero Iraq Petroleum Company, di cui restarono importanti azionisti (assieme ai francesi) fino alla nazionalizzazione della compagnia, che avvenne nel 1972.
Poi la lunga e sanguinosissima guerra tra Iraq e Iran (1980 – 1989) – alimentata dal tradizionale contrasto religioso e culturale tra sunniti e sciti e avviatasi per talune specifiche dispute di frontiera, ma subito combattuta anche con la dichiarata finalità di vedersi riconosciuto il ruolo di massima potenza regionale – allentò considerevolmente i contrasti tra le potenze occidentali e il regime iracheno, considerato il “male minore” rispetto alla teocrazia iraniana. E comunque, per tutta la durata del conflitto, gli inglesi e i francesi furono ampiamente a rimorchio dell’iniziativa USA; la quale, peraltro, fu davvero spregiudicata, poiché da un certo momento in poi fornì armi a entrambi i contendenti al fine di prolungare il conflitto e indebolirli (la cosa venne fuori con il cosiddetto “scandalo Irangate” del 1985 – 86, benché la ricostruzione riportata nei dispositivi, piuttosto miti, di condanna per alcuni alti ufficiali americani si sia comunque attestata sulla tesi, piuttosto riduttiva, che la finalità della CIA, nel traffico di armi con gli ayatollah di Teheran, fosse solo di recuperare fondi segreti per sostenere i contras in Nicaragua).
Maggior protagonismo gli inglesi lo ebbero, invece, nelle due Guerre del Golfo, soprattutto nella seconda, concretizzatasi nell’invasione dell’Iraq nel marzo 2003. Mentre nella prima guerra – quella seguita alla conquista irachena del Kuwait del 1990 e durata fino al febbraio 1991 – nessuna delle potenze europee ebbe un vero autonomo spazio di manovra, sia per l’ampiezza stessa della coalizione (35 Paesi) che per i limiti chiari del mandato ONU, di cui si facevano garanti gli USA, capofila e indiscutibilmente egemoni sul piano politico e militare, la guerra del 2003, che si svolse senza mandato ONU e vide il costituirsi di una ristretta “Coalizione di Paesi volenterosi” (solo quattro nella fase dell’invasione vera e propria – USA, Gran Bretagna, Polonia e Australia – e comunque meno di dieci, tra cui l’Italia per alcuni anni, nel successivo periodo di cosiddetta “stabilizzazione” del Paese occupato).
In quella guerra il ruolo degli inglesi fu cospicuo anche sul piano militare, benché in funzione subordinata rispetto agli USA. Ma soprattutto essi ebbe un indubbio peso proprio nella costruzione politica della invasione, attraverso una insistente campagna sulle “armi di distruzione di massa” del regime di Saddam Hussein. Non si tratta di un dettaglio, perché l’invasione dell’Iraq fu preceduta da un serrato dibattito internazionale proprio sull’esistenza o meno di tali armi, che vide, sullo scacchiere europeo, l’esplicita contrapposizione tra la Gran Bretagna, da un lato, e la Francia e la Germania, dall’altro.
Nel 2014, a distanza di più di 10 anni, si ebbe la pubblicazione del Rapporto Chilcot, risultato di una inchiesta ufficiale, durata sette anni, voluta dal governo e dal parlamento britannico. Fu un lavoro meticoloso, registrato oggi in dodici volumi. Ebbene quel Rapporto non solo stigmatizza il fallimento politico della guerra – avviatasi col proposito di rendere più stabile e sicura la regione mediorientale, aveva in effetti potentemente contribuito a trasformarla nel luogo più instabile del Pianeta -, ma fa anche piena luce sul carattere strumentale della campagna sulle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Mette, cioè, nero su bianco come l’allora premier Tony Blair avesse “deliberatamente ingigantito” la pericolosità delle minacce provenienti dall’Iraq e come non esistessero affatto le sbandierate “prove” sulla esistenza di tali armi nei depositi iracheni.
Era ciò che il brutale dittatore iracheno aveva sempre sostenuto. Ma, in ogni caso, egli era già stato impiccato nel dicembre 2006, dopo un processo portato avanti con determinazione dai nuovi governanti iracheni, che avevano il problema di sancire visibilmente la loro autorità in un Paese che continuava a essere assai instabile e insicuro, nonostante l’occupazione militare anglo-americana. E l’esecuzione della sentenza, esplicitamente disapprovata da tutti i Paesi europei e dalla Russia, vide come entusiasti sostenitori, oltre gli sciti iraniani e i curdi, nemici storici del regime iracheno, proprio Washington e Londra.

10) Ho voluto dilungarmi sulle vicende che in questo avvio del XXI secolo hanno visto uno specifico protagonismo dei francesi da un lato e degli inglesi dall’altro non perché, in sé e per sé, queste vicende abbiano una particolare importanza, ma proprio perché sono esemplificative della voglia di protagonismo delle due ex potenze coloniali. Peraltro sul finire del XX secolo entrambe si erano già mostrate particolarmente attive – ma in verità non erano state le sole – nei due interventi della NATO sui territori dell’ex Jugoslavia: quello del 1995 e quello, ancora più cruento, nel 1999.
Non è il caso qui di ripercorrere le vicende intricate della ex Jugoslavia, che dal 1989 in poi sì sono caratterizzate come concentrato straordinario di nazionalismi e risentimenti tra le repubblica e le etnie, che pure avevano convissuto, indubbiamente con difficoltà ma senza precipitazioni drammatiche, nell’ambito dello Stato federale e del cosiddetto socialismo autogestionario. Il che non vuol dire che in quel periodo non ci fossero state differenze di sviluppo economico tra le varie aree del Paese. Anzi, per certi versi esse si solidificarono ulteriormente, poiché se è vero che il socialismo autogestionario costruiva un rapporto più diretto tra i produttori e la gestione della produzione e della vendita dei prodotti proprio in termini di controllo e di autocontrollo sui tempi di lavoro e sulle modalità di produzione e circolazione, quello stesso sistema produceva inevitabilmente una spinta alla concorrenza ancora più accentuata del capitalismo centralizzato di Stato dell’Unione Sovietica. Si evitava, sì, la mediazione parassitaria delle burocrazie e degli apparati politici, ma non si costruiva una dinamica di uguaglianza tra i vari territori, e neppure, in realtà, tra le condizioni di lavoro e di produzione, che appunto si diversificavano quasi azienda per azienda.
Ma lo ripeto: non serve qui percorrere come quelle disomogeneità e quei contrasti siano diventate contrapposizioni etniche e territoriali, e come le contrapposizioni siano a loro volta diventate ragioni di guerra. Mi limiterò soltanto a ricordare il ruolo importante di un altro grande Paese europeo nella precipitazione degli avvenimenti. Mi riferisco alla Germania, che favorì scientemente la dissoluzione della ex Jugoslavia riconoscendo subito, senza tenere in nessun conto le resistenze e le perplessità degli stessi francesi e inglesi, l’indipendenza della Slovenia, e subito dopo, a ruota, l’indipendenza della Croazia. Difatti, nell’ambito del contesto europeo, proprio negli anni della crisi e della dissoluzione dell’URSS, cioè dal 1989 fino alla metà degli anni ’90, la Germania spinse fortemente sulla mitologia della Mitteleuropa, cioè di un’area politico-territoriale che andava, per l’appunto, dai Balcani ai paesi baltici. Lo faceva proprio per ritagliarsi un ruolo chiaro di protagonista negli sconvolgimenti dell’Est europeo: non solo in funzione antirussa, ma anche in una logica di competizione con gli stessi alleati occidentali.
D’altronde tutto quel periodo (ma a ben vedere succede anche nel periodo attuale) ebbe come importante caratteristica proprio il rifiorire delle tradizionali mitologie identitarie, ognuna distinta e confliggente con le altre. Anzi, le mitologie sono state non solo un’autentica costante degli ultimi decenni, ma hanno infittito significativamente il reticolo intricato dei contrasti e delle connessioni. Va da sé che Francia e Inghilterra non avevano mai smesso di mantenere vive le rispettive mitologie imperiali, e però adesso, dalla fine della Guerra Fredda in poi, un ruolo parimenti notevole nella riarticolazione degli equilibri e degli squilibri l’ha avuto la mitologia dell’angli-americanismo, cioè l’ideologia (nel senso deteriore del termine) di una “naturale solidarietà” – cementata dalla lingua, dalla cultura, dalla tradizione politica e dalla integrazione economica – tra inglesi e americani. Ad essa la Germania ha rapidamente ricominciato a contrapporre il mito della Mitteleuropea, mentre soprattutto la Francia ha rispolverato, con determinazione e in molte forme, il “primato morale e civile” degli europei, richiamandosi scopertamente all’Europa “delle origini”, cioè quella del XVII, XVIII e XIX secolo, allorché Parigi funzionava come una sorta di capitale europea e il francese era la lingua ufficiale delle classi dominanti.
11) Penso che sia il caso di provare a tirare qualche provvisoria conclusione del ragionamento. Sottolineo, per prima cosa, i tre aspetti centrali che hanno sostanziato fin qui la riflessione (e di cui vorrei fosse colta l’importanza nella interpretazione dell’attuale disordine mondiale). Mi riferisco: a) alla tesi della dimensione europea nella genesi, nello sviluppo e nella articolazione della guerra in Ucraina; b) all’importanza, che ho più volte richiamato, delle mitologie identitarie nella costruzione dei concreti avvenimenti storici determinatisi in Europa dalla Seconda guerra mondiale a oggi; c) al persistente groviglio dei risentimenti prodotto, e costantemente alimentato nel senso comune, dalla drammatica storia degli Stati europei nel corso del XX secolo.
Non si tratta di tre dinamiche distinte l’una dall’altra, bensì di elementi saldamente intrecciati: sia in quanto paradigmi interpretativi e sia in quanto spinte effettive, inevitabilmente confuse e contraddittorie, degli avvenimenti. E sono ovviamente intrecciati anche con tutti gli altri elementi che sostanziano la storia concreta degli esseri umani: ovvero con gli interessi specificamente economici, con le articolazioni e le ragioni politiche di Stato, con la salvaguardia delle rispettive posizioni nella gerarchia geopolitica dei Sistemi-Paese, con le contraddizioni sociali all’interno di ciascun Sistema-Paese, con le articolazioni interne alle classi dominanti e alle classi subalterne, con le dinamiche di progressione e regressione delle tecnologie e dei saperi consolidati. Questi elementi, nella presente esposizione, ho dovuto tralasciarli per necessità di scrittura. Lo dico non per scusarmi, ma proprio per richiamare l’attenzione di chi legge su quanto è scritto e non su ciò che non c’è scritto. Il tentativo temerario, e forse velleitario, di queste pagine è, infatti, di aprire spiragli ignorati o troppo sbrigativamente trascurati. Il mondo sta rapidamente e profondamente cambiando sotto i nostri occhi, ma continuiamo a guardarlo, per lo più, con le identiche coordinate che abbiamo usato nei decenni passati. E questo è un gigantesco problema.
Per procedere con la brutalità opportuna, io ritengo che noi – tutti noi figli della modernità dispiegata: sia in quanto sostenitori appagati del capitalismo e sia in quanto oppositori più o meno implacabili dello sfruttamento e dell’oppressione dell’uomo sull’uomo – dovremmo risolutamente andare oltre l’idea che abbiamo linearmente mutuato dall’economia politica del Settecento inglese: oltre l’idea, cioè, che gli avvenimenti storici non siano altro che “questioni di affari”. Questa idea, neppure Karl Marx e Friedrich Engels, che hanno sempre ragionato da filosofi e non da economisti, l’hanno contrastata come avrebbero dovuto. La loro affermazione sul fatto che, nelle dinamiche politiche e culturali, i rapporti sociali di produzione (lo evidenzio: sociali, non la semplice funzione tecnica nell’attività economica) avessero in ultima analisi (e va sottolineato: solo in ultima analisi), una decisiva funzione storica (e anche questo va rimarcato: storica, cioè sul piano della veduta di insieme delle epoche e dei processi di lunga durata) è progressivamente divenuta, nel movimento operaio socialista e comunista, la schematica tesi della primazia assoluta, riproposta pari pari per tutti i contesti specifici, della struttura economica rispetto alla politica, alla morale, alla cultura e alle idee del senso comune, tutte cose rapidamente declassate al rango di “sovrastrutture”.
Per essere ancora più chiaro: è solo nella testa degli economisti e degli uomini di affari che le vicende del mondo girano, giorno dopo giorno, intorno a loro. Nel senso che girano, certo, anche attorno a loro; ma, allo stesso modo, girano intorno a tutti gli altri segmenti delle società umane. E anzi si dovrebbe più sensatamente dire che le cose avvengono all’incontrario: e cioè che sono proprio i molteplici segmenti delle società umane a girare intorno alla totalità storica che concretamente li ricomprende facendone un tutt’uno. Voglio dire che nelle vicende degli esseri umani hanno un peso enorme sicuramente gli interessi economici; ma lo hanno parimenti, e in determinati momenti anche di più, le convinzioni morali, i sentimenti, le credenze, le memorie e tutto ciò che è stato costruito nel tempo in forma di istituzioni, espressioni, invenzioni, saperi e relazioni.
E voglio sottolineare che restano fortemente presenti attorno a noi anche le molte sopravvivenze dell’ancien regime, del mondo simil-aristocratico delle gerarchie e delle “disuguaglianze per natura”, con le loro mitologie guerriere, le quali occupano tuttora l’immaginario pubblico più del mercante e del rivoluzionario che la modernità dispiegata, dal Settecento in poi, ha ipotizzato come le uniche figure esaustive dello scenario sociale. Insomma, diamo quasi per scontato che i mafiosi e le bande criminali, anche quando si sparano tra loro, se ne escano – almeno così racconta la narrazione cinematografica – con la frase “è questione di affari”; ma in verità lo sanno essi stessi per primi, come lo sanno gli spettatori, che soprattutto nei fatti di sangue hanno un peso enorme, e addirittura abnorme, i sentimenti di vendetta e le mitologie corrotte dell’onore e del rispetto.

12) Può sembrare una banalità, ma la prima cosa da cogliere, a proposito della guerra in Ucraina, è che concretamente la combattono ucraini e russi. Sono loro, e non altri, i protagonisti principali di questa tragica vicenda. Non solo perché sono loro a uccidere e a morire sui campi di battaglia, e a vivere direttamente, come popolazione civile, le conseguenze sanguinose dei bombardamenti; ma proprio perché sono esattamente le rispettive ragioni ad averla cominciata e a proseguirla ancora oggi.
Dal versante della Russia si tratta di ragioni squisitamente imperiali, e cioè della cogente necessità degli Stati imperiali di avere il controllo pieno dei propri confini, premendo politicamente ed economicamente, come anche militarmente quando serve, sui popoli e sugli Stati vicini. Un grande impero concepisce normalmente i propri confini come una “linea armata”; e normalmente tende a portarla in avanti questa linea. Con le buone e con le cattive. Nel caso della Russia, alle tradizionali ragioni imperiali si aggiungono i corposissimi elementi di carattere identitario, legati alla presenza di ampie comunità russofone all’interno dei confini ucraini, nonché taluni profondissimi motivi di risentimento, legati, in parte, alle vicende specifiche della relazione tra russi e ucraini negli anni della Seconda guerra mondiale e della Guerra Fredda e in parte alla condizione, psicologica oltre che geopolitica, di un impero ancora potentissimo, ma uscito drasticamente ridimensionato rispetto al passato.
Dal versante dell’Ucraina si tratta di ragioni squisitamente nazionaliste, e cioè della assoluta necessità che ha uno Stato di recente formazione di rafforzare l’omogeneità politica, culturale e sociale del proprio territorio, premendo politicamente ed economicamente, come anche militarmente quando serve, sulle comunità disomogenee, quelle che parlano un’altra lingua e vivono con altre tradizioni culturali. È la dannazione pressoché insuperabile degli Stati nella modernità dispiegata, i quali non sono più, non possono più essere, un fattore di libertà dei popoli com’era successo nell’Ottocento in Europa e in America Latina e nel Novecento in Asia e Africa, allorché le nazioni si emancipavano proprio costruendo le proprie istituzioni statali. Oggi la sequenza è esattamente opposta, e cioè sono le istituzioni statali che ricomprendono in sé la “nazione” ed espungono da sé le diversità nazionali. Le nazioni del Novecento tendono perciò spontaneamente al nazionalismo, la qualcosa le porta – il lungo contrasto tra il governo di Kiev e le regioni del Donbass prima dell’invasione russa lo dimostra in modo esemplare – a una situazione di tendenziale guerra interna ai propri confini, e contemporaneamente, laddove se ne diano le condizioni, a una realtà di tendenziale guerra esterna, tesa a ricomprendere in un unicum tutti i segmenti che hanno uguale identità nazionale.
In questi tre anni si è ampiamente rappresentata la guerra in Ucraina come scontro essenzialmente ideologico tra la democrazia (l’Occidente) e l’autocrazia (la Russia). La tesi è stata che l’attacco russo all’Ucraina fosse avvenuto proprio perché l’Ucraina sceglieva i valori occidentali di libertà e democrazia. E simmetricamente l’intervento dell’Occidente a sostegno della Ucraina lo si è spiegato come un obbligo morale per difendere quei valori. La obiettiva fragilità di tali argomenti, che saltano a piè pari il groviglio di contraddizioni storiche solidificatesi nel cuore dell’Europa, è già emersa più volte in queste pagine. Ma quello che maggiormente mi sconcerta è il carattere impudicamente “ideologico”, proprio nel senso deteriore della parola, della equiparazione di Occidente e democrazia. Viene bellamente ignorato come anche l’Occidente si stia ridefinendo in modo accelerato all’insegna della democratura, con sistemi di governo che fanno convivere organicamente taluni istituti della democrazia sul piano formale e l’autoritarismo, se non la vera e propria dittatura, sul piano sostanziale. Non solo; anche l’articolazione interna ai poteri vede, pressoché in tutti i paesi dell’Occidente, una forte accentuazione delle prerogative degli esecutivi rispetto alle assemblee elettive e alle istituzioni di controllo. E anzi si accentua vistosamente, anche nelle capitali occidentali, il peso degli oligarchi nelle stanze dei bottoni.
Insomma, diventa sempre più difficile distinguere fra le “democrazie” dell’Occidente e le “democrazie” dei paesi di più lunga tradizione autocratica. L’autocrazia, sostenuta da imponenti ondate nazionaliste e simil-fasciste, tende a diventare la regola in tutti gli Imperi e Stati della nostra epoca.
E comunque già oggi è difficile sostenere che ci sia in Ucraina più democrazia di quanto ce ne sia in Russia. In altre parole, la guerra in Ucraina non la si può davvero spiegare attorno alla architrave della democrazia. Tanto più che anche per gli ucraini agiscono corposamente, accanto al diffuso sentimento nazionalista, i risentimenti storici sedimentatesi nel tempo in varie direzioni (e cioè non solo nei confronti dei russi, ma anche nei confronti dei polacchi, dei bielorussi e dei rumeni). Anzi, l’identità nazionale ucraina può veramente solidificarsi solo distinguendosi in modo netto dall’insieme dei vicini. Primi fra tutti, ovviamente, i russi. E l’attuale guerra ne è eloquente riprova.
13) Il contrasto tra russi e ucraini si è rapidamente ed enormemente allargato con l’intervento di molti Paesi a sostegno dell’Ucraina: un amplissimo sostegno non solo diplomatico ma anche, e soprattutto, in termini di forniture militari, copertura finanziaria e aiuti economici. È un fatto che si spiega piuttosto agevolmente passando dal contesto immediato alla situazione mondiale. Quando io insisto sul carattere “specificamente europeo” della guerra in Ucraina è soprattutto per richiamare l’attenzione su ciò che viene sottaciuto o non compreso; ma tale richiamo non cancella affatto, nella stessa vicenda ucraina, il peso e l’importanza dei contrasti a scala internazionale. Del resto, l’ho già più volte accennato: la guerra in Ucraina, oltre ad essere un conflitto specificamente europeo, è anche un tassello della guerra mondiale a pezzi che caratterizza la nostra epoca da almeno venticinque anni (per dare una data indicativa, si potrebbe prendere il 1999, allorché ci fu l’intervento della NATO nella ex Jugoslavia).
La guerra mondiale a pezzi sta procedendo, infatti, ricomprendendo in sequenza unitaria – con tutte le difficoltà e contraddizioni che ciò comporta – proprio i singoli focolai armati; i quali, in sé e per sé, comunque nascono, e purtroppo nasceranno ancora, per ragioni proprie, indipendentemente da essa. Il fatto è che la loro stessa autonoma caduta nella barbarie della guerra potrà durare solo per il breve periodo iniziale, poiché la guerra mondiale a pezzi funziona come effettiva calamita di attrazione per ogni barbarie. In tal modo, anche i conflitti locali si ritrovano ben presto collegati, volenti o no, a una dinamica effettivamente mondiale; e si rafforzano contemporaneamente a vicenda tanto la tendenziale guerra a scala generale fra i grandi schieramenti imperiali (che è ancora in gestazione) quanto le specifiche guerre particolari tra singoli Paesi o gruppi di Paesi (che sono già in pieno svolgimento). E va da sé che proprio la guerra particolare dell’Ucraina tende ad assumere, in questa dinamica, un’importanza quasi di svolta: proprio perché in quel territorio specifico si scontrano direttamente alcuni degli attori decisivi anche della guerra a scala generale. Anzi, essa sta funzionando proprio come spinta e controspinta nella costruzione dei grandi schieramenti globali.
Per dare un’idea di ciò che voglio dire, vorrei richiamare una questione che ha ripetutamente polarizzato il dibattito all’interno dello schieramento occidentale a sostegno degli ucraini. Mi riferisco alla questione della no fly zone, ossia alla copertura dello spazio aereo ucraino, chiesta insistentemente, fin dal primo momento, da Zelensky ai paesi amici. La richiesta era che gli aerei della NATO pattugliassero lo spazio aereo ucraino contro i missili, gli aerei e gli aviogetti russi. Questo desiderio di Kiev fu sostenuto abbastanza presto, con ripetute prese di posizione pubbliche, dai due Paesi più attivi di quella che ho chiamato la “linea ostile” a Mosca, la Polonia e la Repubblica Ceka. Poi, a un certo momento, la no fly zone è stata seccamente sostenuta anche dalla Gran Bretagna (e più blandamente dalla Francia). Come è noto, la no fly zone non è stata poi attuata, perché gli Stati Uniti d’America, a partire dal suo presidente Biden, hanno detto seccamente “no” tanto a Zelensky quanto ai Paesi europei che la chiedevano. E credo non sfugga a nessuno che l’attuazione di quel dispositivo avrebbe quasi sicuramente portato alla guerra esplicita e immediata tra la NATO e la Russia. Credo non sfugga neppure come soprattutto la Gran Bretagna si sentisse già pronta per uno sbocco del genere.
Non stiamo parlando di quisquilie, ma di un qualcosa che ci dovrebbe portare, piuttosto rapidamente, a diffidare dei ragionamenti semplicistici. Per esempio, dei ragionamenti che, senza incertezze, vedono proprio negli USA il principale sostenitore della guerra contro la Russia. L’Occidente non è un blocco omogeneo. Non lo è mai stato. E sul piano internazionale le cose non funzionano affatto alla maniera delle gerarchie militari. Succede solo negli eserciti, e per la verità neppure sempre succede, che gli ordini passino senza discussioni dal generale al colonnello e poi dal colonnello al maggiore e poi dal maggiore al capitano e poi dal capitano al tenente. Negli schieramenti di Stato succede, invece, che anche il più forte dovrà discutere appassionatamente per convincere i propri alleati. E succede molto più spesso di quanto si creda che siano direttamente i Paesi meno apicali sul piano militare a prendere le iniziative, a mettere in moto i processi e a tirarsi dietro gli alleati più forti di loro …
Non penso siano necessarie altre parole. Quello che la stampa e la pletora dei commentatori che affollano le TV sempre più apertamente qualificano come un improvviso e imprevisto voltafaccia di Washington si spiega piuttosto agevolmente nel quadro che ho cercato di delineare. Gli Stati Uniti stanno semplicemente considerando che il loro impegno in una guerra europea non dovrebbe essere incondizionato. Anche perché sono maggiormente interessati ad altri scenari bellici, dal Pacifico al Vicino Oriente. Agli europei stanno ora bruscamente dicendo: se proprio la volete, fatevela da voi la guerra con la Russia. Cosa che peraltro gli europei stanno seriamente considerando, come dimostrano l’attivismo anglo-francese e il riarmo tedesco. E come dimostrano, soprattutto, la irreggimentazione accelerata delle coscienze, tipica dei Paesi già in guerra, e l’accelerazione dei percorsi verso le democrature anche nel cuore dell’Europa, con provvedimenti normativi e pratiche di controllo sempre più pervasive e brutali.
Ma di questi ulteriori sviluppi, parleremo in un altro momento. D’altronde, abbiamo già tanto da fare noi pacifisti. Dobbiamo, per esempio, mobilitarci molto più di quanto non abbiamo fatto finora. Per la Pace e per contrastare frontalmente le politiche di riarmo di tutti i governi, compreso il nostro. E non si può solo parlare. L’urgenza vera è di riempire concretamente lo spazio pubblico con la fisicità di chi si oppone. E, cioè, con incisive pratiche pacifiste, antinazionaliste, antifasciste e antirazziste.
