Tra noi, Bangladesh, Cina, Ghana e Cile: un excursus su come il fast fashion rovini non solo noi, ma anche lavoratori, cittadini e zone che pagano a caro prezzo il nostro consumismo.
A cura di Gaya Guarini
Il momento di entusiasmo quando acquistiamo qualcosa a poco prezzo, che calza a pennello con il nostro sempre più scarso potere d’acquisto, compensa il senso di frustrazione quando ci fa sudare quando fa caldo e gelare quando fa freddo, ci arriva già scucito e cede già ai primi lavaggi? Vale, soprattutto, la nostra qualità della vita e quella degli operai del fast fashion, e delle persone del terzo mondo che pagano a loro spese il consumismo occidentale?
Se è vero che, come già accennato, questi prezzi bassi ci attirano molto per l’inflazione e il nostro potere d’acquisto sempre più debole, è anche vero che è una scusa ad una pessima abitudine che ha permeato la mentalità di giovani e adulti. Capita spesso infatti ad artigiani o piccoli brand che non si piegano alle regole del fast fashion di sentire polemiche riguardo al prezzo dei loro prodotti, Siamo così abituati a pagare magliette di plastica a dieci o venti euro, da perdere totalmente la concezione della realtà. Siamo diventati ignoranti sulla qualità, i tessuti, sul lavoro vero e proprio.
E ciò viene realizzato con amarezza, perché va oltre al nostro comfort. Il non plus ultra del consumismo è incarnato nelle persone che con leggerezza dicono come ci siano capi messi solo una volta nell’armadio perché semplicemente dopo poi si “stancano”, in un tono innocuo e inconsapevole veramente disarmante. Tutto ciò coinvolge tutta una serie di dinamiche dannose per noi, per chi le produce, per il pianeta, ad eccezione di chi detiene il capitale di queste aziende.
Uno sguardo sul “panorama” dei paesi più colpiti
In Bangladesh nel novembre 2023 oltre 5.000 lavoratori tessili hanno bloccato le strade di Dacca, chiedendo un aumento del salario minimo mensile da 8.300 taka (circa 70 euro) a 23.000 taka (circa 190 euro, giusto abbastanza per coprire le spese base di una famiglia). Le condizioni di lavoro senza misure di sicurezza (incidenti come il crollo di Rana Plaza) e lavoratrici che lavorano anche 60 ore alla settimana. Ciò comporta, naturalmente, un aumento dei prezzi. Diventa ancora più triste che le persone di questo si sono lamentate aspramente. Sia chiaro: non vale sicuramente la pena spendere certe somme per stracci di poliestere, ma basta un minimo di empatia e concezione della realtà per capire che i motivi sono più che validi. (Per di più, il capitalismo trova modi astuti e infimi per farci spendere soldi in tutto il possibile fuorché nella qualità, ma questo è materiale per un’altra argomentazione)
Basta rimanere in Bangladesh e spostarsi dalle fabbriche per vedere come le acque reflue vengono spesso scaricate nei corsi d’acqua, e dare uno sguardo ai fiumi per vederli inquinati di coloranti e prodotti chimici. Oppure ancora in Cina, la città di Xintang, è famosa per l’inquinamento causato dalla tintura dei jeans, che rilascia metalli pesanti e altre sostanze chimiche nei fiumi. Altre zone colpite sono quelle del Ghana e del Cile con enormi discariche di prodotti fast fashion, nel “deserto di Atamaca” in Cile, ad esempio, vi è una discarica di vestiti usati ed invenduti proveniente da Europa, Asia e Nord America, visibile persino dai satelliti e chiamato “cimitero del fast fashion”.
Se ciò non fosse abbastanza, in che modo danneggia anche noi?
Ciò che prima si indossava di fibre naturali, calde o fresche, in minori quantità nell’armadio ma di maggiore qualità, ora viene sostituito da molteplici acquisti all’anno o al mese di plastica che ha la straordinaria capacità di farci prendere fuoco in estate e gelare in inverno. Se ciò non sembra vero, non fa altro che provare quanto non siamo più abituati alla qualità.
In conclusione, il fine non è demolire moralmente chi una volta ogni tanto compra fast fashion, o fare una guerra tra poveri a chi è un anticapitalista migliore, il vero nemico è altro. Semplicemente si auspica ad un acquisto sempre più consapevole, di acculturarci e disintossicarci dal consumismo sfrenato che i social tanto alimentano, alimentare lo spirito critico e la soglia dell’empatia.