di Dario Malinconico
In morte di Diego Armando si sprecheranno panegirici, iperboli, esaltazioni roboanti. Questo accade quando si è amati oltre misura da tantissime persone diverse tra loro, e quando le vicende di un essere umano diventano materia di racconti appassionati, di ricostruzioni multiple e accorate.

In un mondo ipernarrato come il nostro, dove la parola “leggenda” si è trasformata lentamente in una merce tra le tante da utilizzare a fini commerciali, la leggenda del Pibe de oro sembra provenire da una strana increspatura temporale, quando si tramandavano oralmente le gesta degli eroi seguendo un canovaccio e amplificando degli episodi a discapito di altri.
La mano de Dios e il gol del secolo. L’Argentina e Napoli. La cocaina, i ricoveri, gli arresti. La FIFA e Blatter. Cuba, Fidel, Chavez e il Latinoamerica. Anche quelli che disprezzavano il personaggio potranno almeno convenire che Maradona è sempre stato più di un calciatore. Al punto che, insieme ai panegirici, ci saranno adesso anche le condanne di un’esistenza “bigger than life”, i rimproveri all’uomo e alle sue debolezze, lo sprezzo malcelato verso una figura intimamente popolare e adorata come tale in tante parti del mondo. Certo, si prova un certo fastidio quando qualcuno lo accusa di non essere stato un buon padre o un buon compagno, immaginando di nobilitare a spirito critico quello che potrebbe essere tranquillamente derubricato a pettegolezzo di quartiere.

Ma i piccoli occhi vedono soltanto i dettagli, al più riescono a intravedere il dito che indica la luna. E la luna che indicava Maradona era un astro irregolare, claudicante, sofferente e, al tempo stesso, strafottente, geniale, non catalogabile. Come quando appena ventenne ebbe l’idea di segnare un gol direttamente dal calcio di inizio. O come quando mandava a rotoli una carriera intera scagliandosi contro i poteri del calcio o contro il potere nordamericano (dovrebbero ricordarselo quelli che scendono a patti con l’esistente tutti i giorni e poi fanno i leoni da tastiera). O come quando accusava la “sua” Argentina di non averlo difeso e la “sua” Napoli di non averlo protetto, salvo poi tributare a queste terre un amore incondizionato. Gli occhi piccoli non sono fatti per scorgere le vere fattezze di questo eroe popolare che ha vissuto mille vite, funambolico sui campi, gonfio e bolso nelle cliniche di riabilitazione, col sigaro e le pose “altermondiste”, con le paillettes alle trasmissioni in prima serata, improbabile e irrefrenabile.
È un eroe, oltretutto, che appartiene ai Sud del mondo, dove la nozione di “eroe” non ha la patina altera che siamo abituati a darle. Ma cosa ha fatto di eroico, domanderebbe qualcuno. Dubbio legittimo. Si potrebbe rispondere che la sua vita rappresenta il riscatto di chi è condannato a un’esistenza da diseredato. Ma non è soltanto questo. Maradona ha rappresentato il diseredato che si riscatta senza diventare come i suoi padroni, senza farsi addomesticare dalle loro leggi e dalla loro morale, senza smarrire la propria alterità all’ordine costituito.

Avrebbe avuto tutto l’interesse a fare il contrario, ma non l’ha fatto, o forse non ci è riuscito. È rimasto dalla parte sbagliata suo malgrado, nonostante i soldi e il lusso. Come è possibile? Forse perché quella parte “sbagliata” lui ce l’aveva appiccicata sulla pelle. Per fortuna sua e nostra. Che potremo continuare a raccontare le gesta del nostro eroe popolare pieno di macchie e di paure.