di Serena Di Lauro
Le donne somale la chiamano “cucitura”; si tratta delle mutilazioni genitali femminili (MGF), ossia l’insieme delle pratiche tradizionali di asportazione e/o alterazione di una parte dell’apparato genitale esterno della donna, per ragioni di natura non medica. Secondo la classificazione fatta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si possono distinguere quattro tipi principali di mutilazione: la clitoridectomia, l’escissione, l’infibulazione o circoncisione faraonica e la sunna; si tratta di pratiche effettuate intorno alla prima infanzia legate prevalentemente alla tradizione africana sub-sahariana, ma diffuse anche in Medio Oriente e in altre parti del mondo.

Le MGF costituiscono una tematica controversa sia nei paesi di origine quanto in quelli meta dei flussi migratori, dove vengono ancora praticate da alcune comunità illegalmente. Numerose ricerche hanno dimostrato infatti che la persistenza di questo fenomeno è ascrivibile non solo alla necessità di mantenere un legame con la propria tradizione culturale, ma anche alla costruzione dell’identità di genere, al riconoscimento di un certo status sociale, alla scarsa conoscenza dei rischi per la salute e ad un complesso sistema economico e simbolico fondato sul cosiddetto “brideprice”, ossia il prezzo della sposa.
Si tratta di un meccanismo fondato sul compenso che la famiglia del futuro marito versa alla famiglia della futura moglie in cambio di una donna illibata, ossia operata, al rischio di dover restituire quanto versato se l’intervento non è avvenuto correttamente secondo tradizione.
Le MGF divengono allora custodi della verginità, ostacolo all’espressione della sessualità, protezione dagli stupri e sostegno economico per l’intero sistema familiare, oltre a garantire alle proprie figlie la certezza di essere accolte benevolmente nella comunità di appartenenza.
Tener conto di questi aspetti è importante affinché si possano decifrare le ragioni che sono alla base di pratiche tanto cruente e dalle radici antichissime (le prime documentazioni in merito risalgono già all’Egitto del II sec. a.C.), che trovano talvolta nelle stesse donne che le hanno subite il più duro ostacolo alla loro interruzione.
Da una lettura antropologica del fenomeno, le mutilazioni genitali femminili rientrano nei cosiddetti riti di passaggio, ovvero quelle pratiche cerimoniali che guidano e regolamentano i mutamenti di status, di ruolo, o di età delle persone, scandendo le varie fasi del ciclo di vita. Un’ iniziazione all’identità di genere non garantita dalla connotazione biologica, ma notificata da un mutamento sociale e morfologico che sancisce l’essere donna.
Una volta operate le bambine vengono rieducate ad usare il proprio corpo, di cui cambiano anche la postura e il portamento affinché siano compatibili con il mutamento subito a seguito dell’intervento; si trasforma anche il rapporto con i coetanei rinunciando al gioco, non solo perché il nuovo assetto corporeo rende impossibile attività come correre o saltare, ma perché il nuovo status di donna non lo consente più.
In questo scenario è doveroso considerare il significativo danno per la salute fisica e psicologica delle donne sottoposte a questa pratica: emorragie, ulcere, forme gravissime d’infezione collegate all’utilizzo di strumenti non sterili e alle precarie condizioni igieniche in cui vengono eseguiti gli interventi, sono solo alcune delle cause di morte in seguito alle MGF. Non mancano difficoltà nel lungo periodo qualora si sopravviva a queste pratiche, talvolta effettuate in ospedale, come problemi nella minzione, dismenorrea, cisti, disfunzioni sessuali, infertilità e in generale compromissione dell’apparato riproduttivo e urinario.
Molti studi sostengono come il valore sociale che le culture praticanti questi riti vi attribuiscono, non sia sufficiente a tutelare le donne che li subiscono dai disturbi psicologici che ne conseguono; l’OMS pone infatti l’accento anche sui danni in termini psichici provocati dalle mutilazioni genitali femminili, come la paura di avere rapporti sessuali a causa del dolore fisico conseguente, disturbi da stress post-traumatico, ansia e depressione, intensi vissuti di colpa verso le figlie offerte alla tradizione, e di violazione profonda della propria fanciullezza.

Grazie alle leggi attive in 24 paesi dell’Africa sub-sahariana, in alcuni Stati africani i numeri legati alla mutilazione genitale sono in netto declino, soprattutto tra le generazioni giovani nelle realtà più istruite. Tuttavia secondo le stime dell’OMS sono comunque più di 3 milioni le bambine che ogni anno vengono sottoposte alla pratica, e in futuro si ritiene che saranno ben 68 milioni coloro che subiranno una forma di mutilazione genitale entro la fine del 2030.
La distanza dai centri urbani e l’assenza di contatto con l’informazione contribuiscono ad una fortificazione delle credenze e delle tradizioni a cui le comunità rispondono; ancora oggi le ragioni che spingono le famiglie a sottoporre le bambine a questo rito di passaggio sono spesso legate all’idea che la procedura apporti benefici igienici ed estetici, promuova la fertilità delle ragazze e preservi la loro reputazione.
I programmi di informazione e sensibilizzazione sui rischi e le complicanze per la salute sembrano essere i mezzi più efficaci e diretti per fronteggiare il fenomeno; da uno studio effettuato dalla Osun University of Tecnology di Osogbo in Nigeria, attraverso la somministrazione di questionari strutturati su un campione di uomini e donne, è emerso infatti che la scarsa istruzione è il primo fattore responsabile della pratica.
Ma affinché le campagne di sensibilizzazione non si riducano ad una occidentalizzazione di altre culture, oltre ad educare le comunità è anche fortemente necessario fornire delle valide alternative che mantengano viva la tradizionale usanza del rito di passaggio, nel rispetto della salute e dei diritti delle bambine che dovranno intraprenderlo. Non bisogna trascurare, infatti, quanto nella vita di tutti i popoli e nell’esistenza di ogni individuo svolgano un ruolo determinante alcuni momenti significativi, che segnano il passaggio evolutivo da una stagione all’altra del ciclo della vita e contribuiscano alla costruzione della propria identità adulta.
In questa ottica si inserisce la promozione di pratiche alternative alla circoncisione femminile che possano mantenere le tradizionali e necessarie caratteristiche delle celebrazioni relative al passaggio alla maturità, definite riti di passaggio alternativi (ARP). Ne è un esempio il rito alternativo ribattezzato Ntanira Na Mugambo, o “circoncisione attraverso le parole”, promosso in Kenya. Durante l’arco di una settimana le giovani donne, momentaneamente separate dalla comunità e dalla famiglia, frequentano corsi informativi sul tema della sessualità confrontandosi con operatori specializzati. La settimana si conclude con il giorno della “maturità”, durante il quale le ragazze che hanno portato a compimento il rituale vengono festeggiate con danze e musica, sancendo così il passaggio ufficiale all’età adulta.
Sebbene sia ancora lunga la strada da percorrere per la tutela dei diritti dell’infanzia e contro le disuguaglianze di genere, ad oggi l’impegno sul campo ha fatto sì che siano più di 20.000 le bambine risparmiate dalla mutilazione genitale femminile attraverso ARP, uno strumento adattabile alla tradizione della singola comunità alla quale viene proposto e che non sacrifichi al progresso il rispetto delle altre culture.