Una dissertazione sulle origini dei canoni di bellezza e sulla la loro natura meschina, soprattutto a spese delle donne. Dobbiamo vivere per performare?
A cura di Gaya Guarini
La vita non vale la pena di essere vissuta se non appari bella, almeno così sembra. Al prezzo della bellezza si perdono l’autenticità e l’etica, dal momento che si finge di essere perfetti e si influenzano maree di ragazze insicure, o a rischio di esserlo.
Sui social bambine e ragazzine si comportano come le ragazze più grandi e palano di cose assorbite da loro. Di certo tutti da bambini cercavamo di emulare e vedevamo con ammirazione i ragazzi più grandi di noi, questo però non deve essere visto come un attacco contro queste bambine/ragazzine che non sono altro che vittime.
Le ragazze più grandi invece ricorrono —appena maggiorenni— con immediatezza a ritocchi estetici, a restrizioni alimentari e pratiche maniacali, talvolta pericolose. Ma come siamo arrivati a questo? E soprattutto, perché ci raccontiamo che lo facciamo “per noi stesse”? Chi è “noi”? Dopotutto, siamo venute al mondo senza pensare di avere nessun problema ed in natura siamo nati per specchiarci solo nell’acqua.
Uno sguardo alle origini di ciò che consideriamo “bello”
Gli standard estetici che seguiamo hanno radici profonde nel classismo e nel razzismo: fino al XVIII secolo la pancia rotonda era lo standard di bellezza poiché significava che avevi accesso a cibo in abbondanza, non dovevi svolgere lavori faticosi e avevi tempo per l’ozio. Ma questa cosa è cambiata con la rivoluzione industriale, poiché la classe operaia aveva accesso ai cibi zuccherati e processati. Dunque le classi più alte hanno deciso di prendere le distanze, ancora una volta e promuovere un controllo dell’alimentazione.
Lo stesso valeva per l’abbronzatura: il pallore era lo standard di bellezza poiché l’abbronzatura era sinonimo di povertà per chi lavorava sotto al sole, poi con i cambiamenti della società è diventata segno di bellezza per chi invece poteva permettersi di fare le vacanze.
Sarai Baartman: razzismo e sessualizzazione come strumenti di controllo
Sarah Baartman era una donna originaria del Sudafrica. Intorno al 1810, fu portata in Europa — con la promessa (mai mantenuta) di successo e denaro — ed esposta nei freak show a Londra e Parigi come curiosità esotica. Il suo corpo, in particolare i glutei molto prominenti e i genitali, veniva mostrato e commentato come qualcosa di selvaggio, animalesco, iper-sessualizzato. Alcune ricostruzioni storiche suggeriscono che, a seguito dell’interesse maschile verso le forme di Sarah Baartman, le donne borghesi europee iniziarono a esagerare l’abbigliamento e le silhouette per nascondere o controllare i propri corpi.
Questa storia agghiacciante svela la matrice razzista degli standard estetici e di come le forme del corpo denigrate sui neri vengano emulate e modificate sui corpi dei bianchi.
Come ha influito fino ai giorni nostri
Da queste modifiche al corpo giungiamo a questa epoca. Costantemente esposti all’ “altro” all’infuori di noi, con l’accortezza che però sia sempre bellissimo e impeccabile, manipolato e modificato.
Se prima i canoni erano corpi naturali, dagli anni ‘20 con le flapper, negli anni 50 con il corpo più formoso come Marilyn Monroe, negli anni ‘80 il corpo più tonico, dagli anni 2000 hanno iniziato ad andare di moda corpi modificati con la chirurgia estetica o con Photoshop. Apparire sempre in modo innaturale e perfetto al costo della realtà.
Il fenomeno “Kardashian” è la sintesi perfetta di quanto raccontato prima: chirurgia estetica, foto modificate per un corpo che ricalca perfettamente caratteristiche che i bianchi hanno sempre discriminato ai neri, attraversando procedure dispendiose che sono simbolo di ricchezza.
E non lasciatevi fregare dagli ultimi trend: “clean girl” su un effetto di pelle pulita, skincare, inclusività. Essere belli solo con la cura della pelle, senza trucco, per loro è solo un modo per farti sentire ancora peggio. Per “loro” — il capitalismo e i suoi addetti — devi arrivare a spendere ancora più soldi perché, adesso più di prima, non sarai mai come la modella che fa finta di essere semplice, acqua e sapone, quando in realtà ha speso tempo e soldi per ritocchi ad hoc.
Chi giova veramente della tua “bellezza”?
Le aziende non guadagnano se tu sei contento o contenta, non guadagnano se ti specchi e sei felice, non guadagnano se tu non pendi dalle labbra di “modelli” solo perché sono superficialmente belli e possono prometterti tante cose. Le aziende non guadagnano e invece tu sì, se la mattina ti svegli e pensi, che alla fine della vita ti sarai interessato più di vivere una vita piena, piuttosto che di essere stato costantemente bello.
È vero che online esisti di più se sei bella, ma nella vita vera, se non hai altro da offrire poco ti rimane, e questo meccanismo tossico non farà altro che far sentire tutti peggio. È vero anche infatti che alla fine dello stress per il corpo che hai non ti rimane niente, e che l’esperienza umana non è fatta per passare la vita a performare la bellezza.