di Marcello De Martino Rosaroll
Coriandoli d’estate.
“L’estate sta finendo e un anno se ne va. Sto diventando grande, lo sai che non mi va!”
Cantavano i Righeira nell’ormai lontano 1985.
Però, l’estate in cui si svolse questa storia, la canzone si era sentita di nuovo più di una volta, sia nella versione originale, sia nella covery di Nelson, il cantante ed attore napoletano che ne aveva fatto un suo cavallo di battaglia, accompagnandola con un video evocativo di un’estate trascorsa al mare, tra spiagge esotiche e balli sensuali.
Io, in quegli ultimi giorni di agosto, sentivo tutto il senso di quelle parole, in particolare di quella prima strofa.
Quattordici anni. Stavo crescendo, ma, per la verità, non ci capivo assolutamente nulla di quanto mi stava accadendo! Avevo ancora voglia di giocare a nascondere, a pallavolo sulla spiaggia con i piedi nell’acqua o a ruba bandiera, dove non mi sceglievano mai in una delle due squadre impegnate nella sfida e finivo sempre per fare quello che regge il fazzoletto e chiama i numeri dei giocatori che devono correre per il trofeo. Però non mi dispiaceva essere il mossiere, quello che decideva chi avrebbe dovuto confrontarsi.
Però in quella lontana estate, sentivo qualcosa di nuovo dentro di me … le ragazzine, ad esempio, le guardavo con occhi diversi: i capelli lunghi e morbidi, ma anche quelle con riccioli e boccoli; e poi quei piccoli seni che ondeggiavano promettenti sotto le magliette estive. Qualcuna non portava neanche il reggiseno ed a me girava la testa, nel vedere quel leggero movimento sotto la stoffa sottile. Peccato che loro, le ragazzine, neanche mi filassero. Anzi, quell’estate, al gruppo se ne era aggiunta una, Loredana, tredici anni, molto carina, capelli sottili e lisci, biondo cenere ed un musetto che mi faceva restare sveglio di notte, a pensarla. Ebbene a me bastava anche soltanto starle vicino per mangiare il gelato, insieme a tutta la compagnia; però la odiavo anche. Sì, perché era appena arrivata nel gruppo di amici con i quali ci incontravamo tutte le estati, fin da quando avevamo sette, otto anni e, proprio lei, aveva cominciato a prendermi in giro, chiamandomi “ciccione”. E dopo di lei, anche qualcuno dei “vecchi amici” aveva preso a deridermi.
È vero, ero decisamente sovrappeso, anzi quasi obeso. Però, non ero stato sempre così: fino ai dieci anni ero stato magrissimo. Ma, da pochi anni, avevo cominciato a mangiare di tutto ed a qualsiasi ora. Divoravo, famelico, qualunque cosa: frutta, pasta, formaggi, salumi. Ma quel che era peggio, oggi che sono in un mondo diverso e riesco a vedermi per quel che ero diventato, erano i chili di merendine industriali, dolciumi, bibite dolci e gassate, che ingurgitavo in modo compulsivo.
Non era successo di colpo, non del tutto. La cosa era iniziata quando avevo capito che i miei genitori non andavano più d’accordo.
All’inizio, mi era capitato di sorprenderli, la sera, quando pensavano che dormissi, a litigare fra loro. Litigi sempre più furiosi, di cui non comprendevo la causa. Però, la cosa mi rendeva agitato e cercavo di controllare l’ansia ed il nervosismo occupando la mente alla ricerca del cibo.
Poi, una notte, mi svegliarono le urla di entrambi; corsi nella loro camera da letto, giusto in tempo per vedere mio padre colpire mamma con uno schiaffo, potente, sul viso. Mia madre, per fortuna, cadde sul letto ed io corsi, piangendo, da lei. La cosa, sul momento finì lì; mia madre mi consolò dicendo che non era successo nulla e mio padre andò a chiudersi nel bagno, senza dire una parola.
Ma, da quella sera qualcosa era scattato dentro di me: la ricerca continua di cibo era diventata, per me, un complemento al cattivo umore che, nonostante gli sforzi dei miei genitori per dissimulare, era diventato l’elemento costantemente presente in famiglia.
Cominciai ad aumentare di peso, ma, soprattutto, ero distratto a scuola, nervoso ed anche suscettibile alle parole degli insegnanti, dei compagni di classe, degli amici.
Tutto il periodo della scuola media fu un calvario. Più mi isolavo, più diventavo bersaglio dei lazzi e delle prese in giro dei compagni. Più questo avveniva, più mi chiudevo in me stesso e trovavo consolazione nel cibo.
Ma ora, per fortuna, avevo superato, in qualche modo, l’esame di terza media ed ero arrivato, con tanti chili di troppo, addosso, a quell’estate di passaggio, prima dell’inizio delle scuole superiori: le vacanze con Loredana, la nuova amichetta, croce e delizia di quelle settimane al mare.
Ma … “l’estate sta finendo…”, appunto; fu una strana estate piena di tumulti, desideri, speranze, bloccate sempre sul nascere da questo peso che mi trascinavo addosso, direi nel cuore e che odiavo, ma che, anche, mi proteggeva dagli altri, mi dava motivo e giustificazione alle mie sconfitte, al mio isolarmi sempre di più, al disinteresse di Loredana con la quale, se solo fossi stato più magro, sarei potuto partire, nei miei sogni ancora infantili, per un lungo, romantico viaggio, su un piccolo veliero del quale avrei avuto il comando ed il controllo.
La nuova scuola.
L’estate, appunto, finì.
Venne il momento di affrontare la nuova scuola. I miei genitori, ormai divisi, mi avevano, di comune accordo, iscritto ad un Istituto Professionale, nel cuore della Napoli “bene”, indirizzo di studi “turistico”. Dicevano che, lì avrei dovuto studiare cose più pratiche e, una volta completati gli studi, avrei potuto trovare subito lavoro. “E poi, – mi disse mio padre – visto che hai tanta passione per il cibo, forse ne potresti fare una professione! Almeno ne trarrai vantaggio!”
Nella nuova classe, finii subito al primo banco, proprio di fronte alla cattedra dei professori, il posto dei secchioni, di quelli che si vogliono mettere in evidenza. O degli sfigati, che non sono riusciti a conquistare un posto nei banchi indietro, quelli più protetti dal controllo a vista degli insegnanti.
Notai subito che, in fondo all’aula, sull’ultima fila, si era formato, fin dal primo giorno, una sorta di trincea, un gruppo di compagni che aveva fatto subito squadra e che sarebbero stati,
probabilmente, i meno disciplinati ed i più difficili della classe. … E che impiegarono non più di mezz’ora, per prendermi di mira e decidere che sarei stato il loro divertimento.
Fin dal primo giorno cominciarono a chiamarmi Palla invece di Paolo. Mi chiedevano cose del tipo: ”Sai giocare a tennis” ed alla mia risposta negativa mi dicevano: “Dovresti venire quando faccio allenamento. Una palla di riserva mi è sempre utile!” E sghignazzavano tutti insieme.
Naturalmente, questa situazione fece peggiorare tutti i miei problemi, compreso il rapporto con il cibo. Continuavo ad ingrassare sempre di più ed a sentirmi sempre più stupido e sbagliato!
La situazione precipitò quando scoprii addirittura che, nel Liceo Scientifico a fianco alla ma scuola, veniva proprio la ragazzina dell’estate appena trascorsa: Loredana! Lei era un anno avanti e così era già iscritta al Liceo.
Quando la vidi, in compagnia di un ragazzino un po’ più grande, restai di sasso: era carina come la ricordavo, anzi, con i jeans attillati e la maglietta blu un po’ scollata (faceva ancora caldo) mi sembrava ancora più bella e, per quanto fossi in grado di valutare a quell’età, affascinante.
Solo che vederla in compagnia di quel “rimorchiation” fu, per me, una pugnalata al cuore! Lui avrà avuto sedici anni, le teneva la mano sulla spalla e le diceva cose nell’orecchio, che, forse, avrei voluto dirle io.
Lei mi vide e non perse occasione: “Ciao Ciccio! Cosa fai qua?”
Il “rimorchiation” mi guardava con aria beffarda e con un evidente senso di superiorità.
Le risposi che andavo nella scuola accanto e lei, di rimando: “Ma sei ancora ingrassato, eh, Ciccione?”
Ebbi appena la forza di fare un piccolo segno di assenso, con la testa; mi girai borbottando tra i denti un “Ciao” strascicato e me la diedi a gambe. Be’, proprio le gambe mi tremavano e temetti di inciampare e cadere, però riuscii a controllarmi ed allontanarmi, mentre sentivo i due ridere alle mie spalle.
La situazione andò, via, via, peggiorando. Ormai un gruppo, quel gruppo di compagni di classe, mi aveva preso di mira. Mi aspettavano dopo la scuola, conoscendo quale strada facessi per tornare a casa e, quando attraversavo un piccolo giardinetto contornato da cespugli, a volte si facevano trovare nascosti lì, mi circondavano e cominciavano a spintonarmi tra di loro. Dicevano che giocavano a pallavolo con me. Finché non cadevo ed allora mi lasciavano per terra e se ne andavano, ridendo.
A scuola il rendimento era, naturalmente, molto basso, anche se le materie non mi dispiacevano, però la testa era sempre in subbuglio ed i pensieri volavano lontano, in luoghi inaccessibili dove io ero l’eroe senza paura e temuto da tutti, capace di difendere Loredana da mostri maligni, come il “remorchiation” con il quale l’avevo vista, più volte.
Di conseguenza, rendevo poco negli studi ed i Prof si lamentavano con me. Probabilmente aspettavano solo l’inizio dei colloqui con le famiglie, per affrontare il problema che, senza dubbio, rappresentavo, per me stesso, ma anche per loro.
Solo un Prof aveva con me un atteggiamento diverso, un modo di fare che mi sorprendeva, ma anche, mi inorgogliva: era evidente quanto mi rispettasse, come persona, indipendentemente dal mio aspetto fisico. Era il Prof di Italiano, giovane e, decisamente sensibile.
Lui, quando avevamo Italiano all’ultima ora, aveva atteso, più di una volta che tutti uscissero dall’aula per fermarsi e complimentarsi con me, per la precisione del mio linguaggio oppure perché, una volta, aveva notato come avevo letto, con quanta intensità, un brano da un libro di Domitilla Melloni, appena uscito nelle librerie e che lui ci aveva portato a leggere in classe.
Il libro cominciava così:
“Che cos’è un corpo? Siamo abituati a guardarlo come se fosse oggetto di un’istantanea, fissarlo in un solo momento che lo cristallizza per sempre. Ma un corpo non si può fermare. Non si può separarlo dalla sua storia…”
Avevamo parlato a lungo, anzi, avevo parlato soprattutto io, perché lui faceva solo qualche breve domanda su di me, su cosa mi piacesse e perché e poi ascoltava; ed era riuscito a farmi raccontare aspetti di me stesso, che neanche io, allora, ancora conoscevo: scoprii, ad esempio, che l’amore per il cibo era un modo, per me, di sentirmi meno solo, di costruirmi, con il grasso, una sorta di corazza contro gli altri, per difendermi dagli altri.
Uscivo da queste chiacchierate con lui, un po’ più leggero. Però questa sensazione di relativo benessere durava poco, giusto il tempo di arrivare a casa e trovarmi di nuovo davanti al frigorifero, ad ingozzarmi da solo, mentre mia madre, con la quale vivevo, dopo la separazione dei miei genitori, era al lavoro.
Un giorno, quel giorno là, che non potrò mai dimenticare, l’incontro con la banda dei miei torturatori, andò peggio del solito: eravamo usciti da scuola un’ora prima, perché un Prof era assente; arrivato al solito giardinetto, li trovai ad aspettarmi; mi spintonarono come sempre fino a farmi cadere, ma, questa volta, non andarono via. Uno di loro disse: “Perché non giochiamo un poco a calcio?”
Tra le loro risate ed i miei lamenti, cominciarono a prendermi a calci, nella pancia, sulla schiena , sulle cosce. Intorno non c’era nessuno, ma forse, qualcuno di loro dovette avere l’impressione che qualche passante si stesse avvicinando, perché mi lasciarono così, per terra e scapparono via, minacciandomi di non parlare con nessuno di quello che era successo, altrimenti avrebbero messo in giro, sul web, il filmato che uno di loro aveva ripreso, di me “vigliacco” che non riuscivo a difendermi ed a reagire al loro “scherzo”!
Mi rialzai dolorante e piangente. Decisi di tornare a scuola, per darmi una lavata nei bagni e controllare i colpi che avevo ricevuto.
Lungo la strada, però, mi sentii sempre peggio. Non era il dolore per i colpi ricevuti, era una profonda, incolmabile umiliazione. Mi sentii sempre peggio, man mano che mi avvicinavo alla Scuola. Un senso di vuoto, di ineluttabilità, di inutilità di me stesso, della mia vita, una mancanza totale di futuro. Tutti questi pensieri stavano scavando una voragine profonda nel mio animo.
Giunsi all’ingresso della Scuola. C’era movimento, molte classi stavano uscendo in quel momento, così mi fu facile non farmi notare e rientrare, confondendomi tra gli altri ragazzi.
Cominciai a salire le scale: primo piano, secondo, terzo. Gli altri scendevano per uscire, al temine dell’ultim’ora di lezione. Al terzo piano ero ormai solo. Cominciai a piangere forte, con singhiozzi rumorosi che mi devastavano, scuotendomi dall’interno, tanto erano potenti.
Fu un attimo, almeno così mi sembra di ricordare, scavalcai la balaustra e, sempre piangendo mi lasciai andare.
Il volo
Mi chiederete come posso essere vivo e raccontarvi questa storia.
Devo tutto al mio Prof di Italiano.
Stava uscendo dalla sala dei professori, al piano terra e, nella scuola ormai quasi vuota, udì il mio pianto, i miei singhiozzi disperati. Alzò lo sguardo e mi vide, su, al terzo piano, mentre scavalcavo la balaustra. Non fece in tempo a salire le scale ed a fermarmi, ma mi aspettò, fermo sulle gambe, riuscendo, in qualche modo, a prendermi al volo.
Naturalmente, non finì bene.
Io me la cavai con un paio di costole incrinate ed una caviglia slogata, oltre che con un piccolo, per fortuna, trauma cranico. Lui, invece, ruppe entrambi le braccia e prese un calcio in pieno viso, che gli costò una serie di interventi chirurgici.
Però, mi salvò la vita.
Alcuni dei miei torturatori, furono fermati, subirono un processo e furono inviati in centri di detenzione e recupero. Non li ho mai più visti o sentiti.
Oggi, vivo davvero in un mondo diverso: dopo il tentativo di suicidio, fui ricoverato in ospedale, dove rimasi soltanto quattro giorni. Dopo, però, un Giudice decise di mandarmi presso un Centro di assistenza per minori con disagi, dove intrapresi un percorso di recupero.
Lì, per mia fortuna, incontrai Stefania, una psichiatra che aveva dedicato la vita proprio al recupero dei ragazzi e ragazze con disagi alimentari. Ancora oggi, la considero la mia seconda mamma! Stefania mi è stata molto vicino, insegnandomi, lentamente, ad avere più fiducia in me stesso, a cercare le risposte agli avvenimenti ed alle mie ansie, cercando le strade migliori per affrontare le difficoltà, accettandole come parte stessa della vita, superandole, quando possibile o convivendoci, quando necessario.
Ho imparato a comprendere meglio anche gli altri, a capirne le difficoltà e come poterli aiutare. Mi è stato di grande aiuto il rapporto, costruito con l’aiuto di Stefania e dei suoi collaboratori/amici, con gli animali, con i cavalli in particolare, che mi hanno aiutato a comprendere il significato di dialogo, anche senza bisogno di parole.
Finalmente oggi ho un peso normale, studio psicologia e spero di poter entrare, appena conclusi gli studi, nello staff di Stefania, per poter aiutare altri ragazzi, in difficoltà come mi sono trovato io.
Con il Prof di Italiano sono rimasto in contatto: dopo il mio volo, passò quasi sei mesi tra interventi chirurgici e cure riabilitative. Sono andato a trovarlo diverse volte ed è stato lui a spingermi a cominciare a scrivere.
Questo racconto, lo devo a lui.