Nelle ultime settimane, Napoli ha visto diverse iniziative di piazza in difesa del reddito di cittadinanza. Giornali e tv hanno commentato i cortei sottolineando il fatto che fossero ancora poco partecipati, ma anche ipotizzando il crescere delle tensioni nel prossimo autunno. Per capirne di più ne parliamo con Rino Malinconico, scrittore e filosofo noto ai lettori di Impronte Sociali, nonché militante del Partito della Rifondazione Comunista e attivista dei comitati impegnati sui temi della Pace, dell’Ambiente e dei Diritti Sociali.

D. Cosa sta succedendo a Napoli? Secondo te siamo davvero alle prime avvisaglie di un autunno di proteste e tensioni?
R. Io mi auguro che le proteste ci siano. E spero proprio che acquistino forza. Finora i cortei ci sono stati solo a Napoli, e sono rimasti ancora nell’ordine delle centinaia di persone. Ma penso che già a partire dalle prossime settimane (a Napoli un nuovo corteo è convocato per lunedì 28 agosto, con partenza da Piazza Garibaldi alle ore 10) si registrerà una crescita territoriale e numerica della protesta. Del resto, c’è molta ragione di protestare. Nonostante i suoi limiti, il Reddito di Cittadinanza aveva aiutato finora tantissime famiglie in condizioni disoccupazione o di fragilità sociale. Per la sola Campania parliamo di oltre 600.000 persone. La decisione del governo Meloni di stravolgerlo, e sostanzialmente cancellarlo, produrrà nei prossimi mesi un aumento drammatico dei livelli di povertà. Con la secca distinzione tra “occupabili” e “non occupabili”, e togliendo ai primi il sostegno e abbassandolo brutalmente ai secondi, il governo ha condannato milioni di uomini, donne e bambini a un vero e proprio disastro. Difendere il Reddito di Cittadinanza è perciò un’autentica battaglia di civiltà.
D. Il governo sostiene, però, che ci saranno misure sostitutive, e che nessuno verrà abbandonato al suo destino…
R. È una colossale bugia. La legge 197 del 29 dicembre 2022, la cosiddetta “Legge di Bilancio”, abolendo in toto il Reddito di cittadinanza dal 1° gennaio 2024, e peggiorandolo poi da subito attraverso il “Decreto Lavoro” del 4 maggio scorso, ha semplicemente aperto un vuoto spaventoso. Si consideri, ad esempio, quelli che la legge stessa definisce formalmente “non occupabili”. L’Assegno di Inclusione previsto per loro – cioè, per i nuclei familiari in cui siano presenti persone con disabilità, oppure minorenni, oppure persone con almeno 60 anni di età – ammonterà “fino a un massimo” di 6000 euro l’anno; e per richiederlo, oltre alla documentazione dei requisiti di non-occupabilità, bisognerà avere un ISEE inferiore a 9360 euro annui e disporre comunque di un reddito non superiore a 6000 euro. In più, questo “straordinario” beneficio avrà durata massima di 18 mesi, con “possibile” rinnovo per soli altri 12 mesi. Davvero si può credere che in tal modo si salvaguarderanno le persone in condizione di fragilità sociale?
D. Invece per gli occupabili cosa è previsto?
R. Nell’immediato niente. Cioè, i nuclei familiari poveri composti da persone comprese tra i 18 e i 59 anni, se hanno la “fortuna” di non avere disabili al loro interno, non riceveranno alcun reddito già da agosto a dicembre 2023. Poi, da gennaio 2024, ammesso che abbiano i requisiti e li certifichino, dovrebbero essere inseriti nelle attività previste da una nuova misura indicata come “Supporto per la formazione e il lavoro” (Sfl). Di cosa concretamente si tratta, è difficile capirlo, perché non si sa neppure bene chi dovrebbe attivare (Regione? Centri per l’Impego? Stato?) gli eventuali corsi di formazione finalizzati al lavoro. Quello che si sa è che per i partecipanti è previsto un sussidio di 350 euro mensili per i 12 mesi massimi di tale attività. Dopo, ci sia o non ci sia il lavoro, tutto finisce. Ed è bene precisare, parlando di lavoro, che, secondo la nuova norma, esso potrebbe arrivare da tutto il territorio nazionale: ovvero, un calabrese potrebbe essere chiamato ad Aosta e un Veneto in Puglia. E la chiamata non la si potrà rifiutare, pena l’allontanamento dal corso e la revoca del contributo. Anche qui: si tratta di un aiuto alle persone povere o, piuttosto, di una semplice pratica burocratica di abbandono al loro destino?

D. E quelli che ora stanno protestando, cosa chiedono in concreto?
R. Fermo restando che l’obiettivo centrale dei cortei è, ovviamente, il ritiro delle norme che hanno abolito il Reddito di cittadinanza col conseguente ripristino della situazione che c’era prima, nelle mobilitazioni di questi giorni stanno prendendo forma due livelli, tra loro strettamente intrecciati, di rivendicazioni. Ci sono, da un lato, le richieste incentrate sui tempi brevi, che camminano assieme all’obiettivo centrale di far fare marcia indietro al governo; e ci sono, contemporaneamente, gli obiettivi da far valere all’interno di una battaglia più complessiva e con tempi più lunghi. In relazione al primo livello, il tentativo è di strappare subito un primo risultato, col mantenimento fino al 31 dicembre dell’erogazione del vecchio importo per tutta l’attuale platea dei percettori, e cioè anche per i cosiddetti “occupabili”. È una richiesta che sta prendendo forza, perché viene ora avanzata anche dai Comuni (in Campania, ad esempio, c’è stata una chiara presa di posizione dell’ANCI, l’Associazione dei Comuni, che ha chiesto al governo di non modificare nulla fino a dicembre, in quanto la distinzione nominativa tra occupabili e non occupabili è ancora in alto mare, mentre le misure sostitutive comunque non ce la faranno a partire in questi mesi). E c’è anche la pressione sugli Enti Territoriali, affinché attivino comunque delle misure integrative a sostegno del reddito di coloro che, con le nuove norme, dovessero perderlo.
D. A questo proposito, proprio in Campania c’è stata nei mesi scorsi una raccolta di firme per chiedere alla Regione di varare una MIR, una Misura Integrativa di sostegno ai Redditi di disoccupati e persone in difficoltà economiche. Tu sei stato tra gli organizzatori di questa iniziativa. Puoi parlarcene?
R. La Petizione, sottoscritta la circa 5000 cittadini campani, è stata consegnata al Presidente del Consiglio Regionale lo scorso 19 luglio, ed è ora all’esame della competente Commissione consiliare. Detto in breve, essa sollecita l’Ente Regione a deliberare, nel Bilancio di Previsione, una efficace e stabile integrazione ai redditi dei cittadini e delle cittadine campane in condizione di disoccupazione. Tale richiesta, motivata dalla grave e generalizzata impennata dei prezzi, ha ora acquistato caratteri di perentoria necessità proprio con lo stravolgimento e la sostanziale cancellazione di quanto previsto finora dal Reddito di Cittadinanza. Ma la MIR diventa oggi anche un possibile, straordinario punto di forza per l’intero movimento di lotta. Riuscire a ottenere, premendo con la mobilitazione sulla Regione Campania, che essa venga effettivamente approvata in tempi brevi, significa arginare, almeno in parte, il disastro che si sta abbattendo su centinaia di migliaia di persone. Ed è una dinamica di lotta che potrebbe facilmente estendersi anche ad altre regioni. Del resto, in una Regione a noi confinante, la Puglia, già esiste dal 2016 una misura integrativa regionale – il “Reddito di dignità” – che allarga la platea dei beneficiari delle misura di contrasto alla povertà previste a livello nazionale. Sarebbe davvero assurdo che la Campania, che registra una povertà così drammatica e diffusa, restasse ferma.
D. Dunque, per ricapitolare, oltre a chiedere al governo Meloni il ritiro secco degli ultimi provvedimenti, l’iniziativa di lotta spingerebbe: da un lato, per mantenere le cose come stanno almeno fino al 31 dicembre; e, dall’altro, per ottenere comunque dalle Regioni quello che si perderebbe coi tagli del governo. È giusto?
R. È giusto, ma non è solo questo. Oltre al piano delle rivendicazioni immediate, esiste un livello più complessivo delle rivendicazioni, quello che mira a cambiamenti sostanziali nell’attuale sistema di lavoro. Un obiettivo, ad esempio. è il salario orario minimo per legge, per il quale c’è ora anche una raccolta di firme su una Legge di iniziativa popolare che lo fissa a 10 euro l’ora, con aumenti automatici legati al costo della vita (un ritorno, in sostanza, della Scala mobile). Ma oggi come oggi sarebbe possibile, ed economicamente reggibile, anche una vera riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario: ad esempio, 30 ore settimanali col mantenimento dei salari e degli stipendi attualmente collegati alle 36, 40 e anche più ore. E aggiungo: non solo secondo il principio del “lavorare meno per lavorare tutti”; ma anche per far valere il contrario: “lavorare tutti per lavorare meno e vivere di più”.
D. Ancora una domanda: tu ritieni che davvero si possa costruire, partendo dalle resistenze sulla questione del Reddito di cittadinanza, un movimento generale che metta effettivamente in discussione l’attuale debolezza del lavoro in Italia?
R. Questo non lo so. Lo diranno i prossimi mesi se davvero ci sarà una ripresa generalizzata della conflittualità sul lavoro e per il lavoro. Dipenderà anche dalla capacità di auto-organizzazione dell’attuale embrionale movimento di lotta, dalla sua attitudine a mettere assieme gli ormai ex percettori di reddito con coloro che un lavoro, più o meno stabile, ce l’hanno. Più in generale, se si moltiplicheranno, quartiere per quartiere e città per città, i comitati popolari in difesa del reddito e del lavoro, e se in essi si impegneranno anche coloro che, per esperienza e capacità organizzative, potrebbero davvero dare una mano – una mano, ovviamente, in quanto veri e propri attivisti del movimento di lotta, senza la preoccupazione (che sarebbe infantile allo stato delle cose) di dare risalto alle proprie appartenenze e alle proprie bandiere -, ebbene, se succederà questo, potrebbe davvero prendere corpo quello che manca da troppi anni in Italia: il protagonismo diretto delle classi popolari.
D. Insomma, tu sei ottimista sulla possibilità che la lotta si estenda?
R. Non sono né ottimista, né pessimista. So, però, che c’è una effettiva potenzialità storica nella battaglia in difesa del Reddito di cittadinanza. Soprattutto perché unisce e non divide i disoccupati dagli occupati. Se vengono meno le attuali, pur minime, misure di sostegno ai redditi delle persone in difficoltà economica, tanti e tante saranno costretti nuovamente ad accettare occupazioni ultraprecarie e paghe miserabili. Si abbasserà, di conseguenza, il valore complessivo del lavoro e la stessa contrattazione tra lavoratori e datori di lavoro diventerà più difficile per i lavoratori. Ci perderebbero, in sostanza tutti, sia i disoccupati, che non avrebbero più uno scudo per resistere alle offerte miserabili di lavori miserabili, e sia coloro che un lavoro più o meno stabile ce l’hanno, ma si ritroverebbero a lavorare in un contesto complessivamente caratterizzato da precarietà assoluta, bassi salari e paghe di fame. Ma poi è fin troppo evidente che questa battaglia in difesa del Reddito di cittadinanza mette linearmente sul tavolo i temi epocali della povertà e della disuguaglianza. Quando si toglie ai poveri finanche il minimo per la sopravvivenza e contemporaneamente si spendono miliardi in armamenti, si ripristinano i vitalizi agli ex parlamentari e si condonano le tasse non pagate ai ceti benestanti; ebbene, quando succede questo, anche coloro che normalmente non vogliono vedere, alla fine lo capiscono che sono in gioco le basi stesse della convivenza civile.
Grazie per la pubblicazione dell’intervista dell’esaustivo (come sempre) Rino, di cui forse era meglio pubblicare una fotografia un po’ più aggiornata 😉 e grazie per il vostro lavoro con questo sito.