In questi giorni, come da troppo tempo purtroppo, arrivano notizie di naufragi avvenuti tra le rotte che vanno dalla Libia, o dalla Tunisia, all’Italia; in quei viaggi della speranza dove tanti nostre sorelle e fratelli provano a cambiare la loro vita fatta di fame, guerre e povertà estrema. Marcello Rosaroll De Martino racconta la storia di una mamma che subisce violenza, e che con i suoi figli, Kenan e Safaa, si imbarcheranno su un gommone: purtroppo non tutto va nel verso giusto. Questo scritto ha vinto la Sezione Racconti inediti del Premio Melagrana 2019, e farà parte di una pubblicazione delle Edizioni Melagrana.
Vieni avanti, mi guardi, gli occhi cattivi, feroci. Ho paura, ma non abbasso lo sguardo. Mi afferri i
capelli. Urlo. Mi colpisci in viso fortissimo.
Stramazzo a terra. Mi sei addosso.
Tu ed altri due mi bloccate al suolo, sulla terra ruvida. Mi strappi l’abito. Non ho molto altro addosso,
solo le mutandine; mi strappate anche quelle. Sono nuda. Riesco a colpirti con un calcio in viso. Ti
imbestialisci, mi sferri un pugno tra stomaco e petto. Mi sento svenire ma resisto. Non voglio.
Mi gira la testa, tutto ruota.
Sento la tua voce, le imprecazioni degli altri due. Dici qualcosa, ma non capisco, ho dolore. Le altre
due bestie mi bloccano di nuovo, ma tengo le gambe chiuse.
Nessuno intorno fa nulla: paura.
Arriva un quarto: tiene Kenan sollevato per le braccine ed ha una lama puntata alla sua gola.
Urlo un “No” che mi si strozza in gola. Non so neanche se lo abbia detto davvero; lascio che mi
aprano le gambe; le spalancano. Dovrei sentire dolore, ma non sento nulla, guardo Kenan che piange
e quel coltello alla sua gola. Poi un colpo violento, dentro: mi sento aprire. Stavolta l’urlo esce reale,
poi nulla.
Mi sveglio tra le braccia di Feimata, mia sorella, due anni più grande. Ho dolore ovunque e mi sento
sporca, sporca, sporca. Cerco Kenan, per fortuna lo vedo, è qui rannicchiato vicino a me e c’è anche
sua sorella, mia figlia Safaa. Safaa ha sette anni, Kenan quattro. Hanno entrambi il viso stralunato,
occhi lucidi ed il terrore nello sguardo. Ho un conato improvviso, ma non rimetto nulla. Non ho nulla
da cacciare, non mangio da quasi due giorni. Poi, improvviso, un dolore violento tra le gambe e
ricordo … mi hanno violentata, tutta la banda.
Addosso ho un abito che non è il mio: uno straccio, poco più. Era di Feimata, mi sta grande ma non
ho altro, neanche le mutandine.
Guardo Feimata con riconoscenza ma non riesco a dire nulla; piango, abbraccio Kenan e Safaa e mi
sento di nuovo mancare.
Ormai è passata una settimana dalla violenza. Per fortuna non si è ripetuta. Io, ormai, sono nulla.
Potrei morire, potrei essere morta. Non fosse che per Kenan e Safaa.
Non penso più. Non respiro più. Non mangio più. Solo Feimata riesce a farmi ingoiare qualcosa. Mi
dice: “Per Safaa, per Kenan.” Ed io apro la bocca ed ingoio. Come lo dirò ad Asad. Forse non glielo
dirò mai, forse morirò prima.
Siamo una trentina nella baracca: quasi tutte donne, sei bambini, tra cui Safaa e Kenan e sei uomini;
uomini o quel che resta di loro. Anche loro non se la passano bene, mangiano meno di tutti;
qualcuno ha visto la propria donna usata come me, senza poter far nulla. Uno aveva provato a
difenderla; non è più con noi: hanno abbandonato il suo corpo nel deserto tra sassi e sabbia, dopo
averlo ridotto a pezzi con i machete.
Fa caldo qui dentro. Siamo chiusi tutto il giorno. Dicono di aspettare, verrà il nostro turno. Ci hanno
rubato tutto. I pochi soldi che ci erano rimasti, dopo aver pagato il viaggio ai loro capi.
Non ho più il cellulare per chiamarti o per farmi chiamare da Parigi, dove sei già, dove hai trovato
lavoro, da dove ci hai mandato, in tre anni, i soldi per raggiungerti. Ed io soldi non ne ho più, non ho
più nulla: non ho soldi, non ho abiti per cambiare i miei figli, per me. Nulla. Ho solo la speranza di
rivederti, di venire da te, di portarti Safaa, di farti vedere Kenan che ancora non conosci.
La baracca è calda di giorno e fredda la notte. Per scaldarci ci mettiamo tutte vicine, con i bambini
in mezzo, ma di giorno il caldo non si sa come sopportarlo.
Ci fanno uscire a gruppi di cinque o sei, con i nostri bambini, una decina di minuti. I bambini
vorremmo farli uscire più di una volta, con le altre donne, ma abbiamo paura che ce li rubino, ce li
portino via e loro, i bambini, non vogliono saperne: se nel gruppo che esce non c’è la loro mamma
od il papà, non vanno. Così, alla fine, anche i bambini stanno fuori solo pochi minuti al giorno.
Mi sento impazzire, cibo ed acqua sono pochi ed io do a Safaa e Kenan quasi tutta la mia razione.
Tutta non posso, non posso; io non posso morire, altrimenti cosa sarà di loro? Tanto, non ho
neanche più fame. Io sono già morta.
Non ci fanno partire: un giorno dicono che il mare è agitato, un giorno che non c’è la barca, un giorno
che sono partiti gli altri, che erano lì da prima, un giorno neanche rispondono.
Poi, finalmente, una mattina, spalancano le porte della baracca, sparano un paio di colpi in aria;
ridono sguaiati, offensivi; noi stiamo tutti male, ma ci dicono: “Su, andate, tocca a voi; andate prima
che ci ripensiamo e decidiamo di tenervi qui a divertirci ancora un po’!” Ancora un paio di colpi
sparati in aria e ci indicano con i fucili il sentiero.
Qualcuno degli uomini si attarda, fa fatica ad alzarsi, è debolissimo. Si prende un calcio nel fianco e,
zoppicando, si unisce a noi.
“Correte, sbrigatevi chi entra va, gli altri aspettano… o li ammazziamo”.
Ridono, Uno di loro dà un gran colpo sul sedere di Feimata che non dice nulla, mi guarda, prende
Kenan in braccio e mi dice: “corri, prendi Safaa per mano e corri, facciamo presto!”
Il sentiero sale verso una duna, in parte rocciosa, in parte coperta di sabbia. Corriamo, qualcuno più
di noi, altri restano indietro.
In cima alla duna vediamo il mare.
Era là, a trecento metri dalla baracca, grande, immenso, più grande del deserto che abbiamo
attraversato, azzurro, quasi come il cielo, ma più scuro. No, sbaglio, non è azzurro, è cupo,
minaccioso eppure pieno di speranza. Era nascosto dalle dune. Ecco cos’era quel rumore continuo,
ritmato, che sentivamo di notte.
E poi, tanti altri: duecento, trecento. Ma chi sono? Dov’erano? Altri disgraziati, altri disperati, altri
speranzosi.
Come noi.
Sul mare due barche, diverse da quelle del nostro fiume. Sono come me le avevi descritte tu, al
telefono, quando eri arrivato in Italia: più grandi delle nostre, una di legno, ma un’altra deve essere
quella che mi hai descritto, quella che chiamano gommone.
Sono lì, a duecento metri dalla spiaggia. Ondeggiano, ci aspettano: speranza e minaccia insieme.
Cosa accadrà, ora? Ho paura ad entrare in quell’acqua, grande e sconosciuta. Io, noi non sappiamo
nuotare. Cosa dobbiamo fare? Cosa devo fare con Safaa e Kenan? Cosa fa Feimata? La guardo, ci
guardiamo poi, senza parlare, via di corsa ancora verso il mare, verso le barche, verso il gommone.
Non ricordo più fame, botte, violenze; corro, corro con Feimata che ha Kenan in braccio, con Safaa
che mi tiene la mano stretta e corre anche lei.
Siamo in acqua. Sento la sabbia molle sotto i piedi: mai provata prima questa sensazione. Corriamo,
finché possiamo; poi l’acqua, piano piano sale, raggiunge lo stomaco, il petto; fatichiamo ad
avanzare. Io ho preso in braccio Safaa che non tocca più. L’acqua sale alla gola; forse moriremo qui,
moriremo …
Poi un ricordo: tu che mi descrivi la stessa scena, quasi quattro anni fa, la corsa, l’assalto alle barche.
Il tuo viso mi si staglia in mente, Asad! Dolce, lontano Asad! Mi avevi detto di aver aiutato una donna
a salire, poi, solo dopo, eri salito anche tu.
Ce la farò anche io! Ce la faremo! Stiamo arrivando! Stiamo salendo! Siamo fradici, ma stiamo
ricominciando il viaggio! Stiamo per attraversare il mare! Domani saremo in Italia! Io e Feimata,
Kenan e Safaa e con noi tanti, tutti gli altri! Forza! Sali Safaa! Kenan è già su! Forza Feimata! Grazie
amico sconosciuto che ci stai aiutando!
È difficile. È difficile salire. Si muove tutto! Il vestito è fradicio, mi è salito scoprendomi le cosce e
forse di più. Anche noi siamo fradici, ma non importa! Siamo su! Siamo a bordo, stiamo venendo
Asad! Veniamo in Europa, in Italia, a Parigi!
Il gommone è pieno di gente, ma altri continuano ad arrivare, salgono, qualcuno li aiuta. Poi la barca
comincia ad oscillare. Qualcuno approfitta del momento in cui oscilla verso il basso per tirarsi ancora
su; ma l’ondeggio aumenta. Il gommone è stracarico. Forse non reggerà. Urla! Paura! Poi due spari.
Due spari ed un silenzio irreale. Dura tre secondi, ma sembra eterno. Siamo tutti immobili. Poi l’urlo
feroce, straziante, angoscioso di una donna che chiama, disperata, il suo uomo che galleggia
esanime. Cerca di scendere, di saltare di nuovo in acqua, ma la trattengono e, di colpo, la barca si
muove. Un urlo sale da tutte le bocche, come da una sola gola. Il viaggio riprende.
Non dormo, è notte ma non si può dormire. Freddo. Un freddo tremendo, sconosciuto, un tremore
nelle ossa, che non riesce a fermarsi. Kenan, per fortuna, dorme. È accoccolato tra me e la sorella.
Ha avuto freddo, ma è riuscito a ripararsi un po’ tra i nostri due corpi e, alla fine, è crollato. Safaa
no. Non dorme. Lei è donna, se pur bambina. Lei sente il pericolo, l’orrore. Sa che non deve distrarsi,
che qualsiasi gesto sbagliato può costarle caro. Non glielo ha detto nessuno, ma lei lo sa. Lei è una
donna. Alla fine, verso l’alba, anche se il freddo si fa più pungente crolla, si addormenta, avvolta tra
le braccia di Feimata.
Il mare, per fortuna è calmo. Il gommone avanza; piano, mi sembra.
Attorno a me, ai miei figli, a Feimata ci saranno almeno cento persone. Il capobarca ha detto che
siamo centododici. Anche lui è un povero disgraziato, come noi; rischia la vita, allo stesso nostro
modo; però lui ci guadagna. Se esce vivo, sarà a posto, grazie ai nostri soldi, ai soldi che i trafficanti
gli hanno messo in tasca. E, allora, lui è diverso da noi e lo sa. Sa che deve controllarci, deve guardarsi
da una possibile rivolta. È lui che distribuirà i pochi viveri e l’acqua, poca anche quella, prima di
arrivare in Italia o di essere soccorsi. È lui che terrà la rotta, controllerà velocità e carburante. Ed
allora si comporta di conseguenza: urla, minaccia, mostra la pistola che gli hanno dato e, intanto,
conduce la barca. Speriamo che conosca la rotta!
L’altra barca è più lenta, resta indietro, diventa sempre più piccola, poi sparisce.
Non so con esattezza, ma ci saranno state almeno duecento persone, a bordo. Che fine faranno
anche loro? Li rivedremo mai? Magari saranno loro a salvarsi e noi, invece, moriremo, di freddo,
oppure affogati in questo mare che non finisce mai.
Noi siamo sistemati più o meno al centro della barca, un po’ più verso la parte posteriore.
Rispetto agli altri, non stiamo neanche malissimo. Chi è davanti è più esposto a vento ed onde.
D’altra parte, carichi come siamo, la barca è a pelo d’acqua; ci saranno forse sei o sette centimetri
tra il bordo ed il mare.
Accanto a me, c’è un ragazzo molto giovane. Parliamo lingue diverse, ma ho capito che è partito sei
mesi fa dal Sudan. In Italia c’è già un suo fratello. È in una città del Nord, Bergamo, credo mi abbia
detto; fa il muratore, lo sta aspettando.
Il Sole comincia ad alzarsi. Adesso, spero, inizierà a scaldarci, ma, per ora, fa ancora freddo. Kenan
dorme, invece Safaa si è già svegliata. Anche Feimata, alle prime luci dell’alba si è un po’ assopita.
Dorme a tratti, sobbalza, rabbrividisce, si sveglia, poi si riaddormenta di nuovo per pochi minuti.
Siamo intorpiditi tutti, per il freddo, per l’impossibilità a muoverci, stretti come siamo.
Il mare ora è meno calmo; piccole onde si infrangono sul gommone, a volte contro il bordo, dalla
nostra parte; così ci bagniamo. Con il freddo pungente del mattino, di questa stagione, gli spruzzi
sembrano caldi.
È che, poi, si resta bagnati ed il freddo aumenta.
Io ho nausea. Sarà che non sono abituata a stare tante ore in barca. Ed in queste condizioni, poi.
Non sono l’unica a soffrire di stomaco, ma non i miei figli e Feimata , per fortuna; il ragazzo a fianco
a me ha rimesso. Quasi nulla, visto il poco che abbiamo nello stomaco, ma non ha potuto girarsi
verso il mare ed il vomito gli è finito addosso. Non è il solo sulla barca. Ogni tanto, a seconda del
vento, mi arrivano folate maleodoranti. È un misto di puzza di vomito, di sudore, di abiti sporchi e,
forse, di paura. Il ragazzo si chiama Mosi, è dolce e si vergogna di trovarsi in queste condizioni, ma
non è colpa sua ed ora tanti cominciano a soffrire il mare.
Il Sole, più alto, ci riscalda un po’, ma il vento e le onde crescono e la barca comincia a muoversi
sotto di noi. È come se fosse viva e tremasse di paura anche lei.
La sete, più che la fame, si sente, ora che il caldo cresce. A bordo c’è poca acqua e girano poche
bottiglie. L’ordine del capobarca è di non bere più di un sorso. Ma davanti, qualcuno avrà ingurgitato
più acqua di quanta gli sarebbe spettata. Si alza un vociare e volano insulti. Il capobarca si fa sentire
su tutti ed estrae la pistola. Il gesto è sufficiente a riportare la calma, almeno per il momento.
Ma il clima a bordo sta cambiando.
È di nuovo notte; di questa stagione fa buio presto. Buio, già, siamo davvero nel buio quasi totale.
Per fortuna in cielo mezza luna illumina la scena.
In verità, sarebbe meglio il buio totale. Il mare è cresciuto ancora. Vedere le onde fa paura. Arrivano
montagne d’acqua e quando sembra che ci si rovescino addosso, il gommone, a fatica, si solleva un
po’. Così, in barca, arriva solo una piccola parte della montagna. Ormai siamo tutti bagnati e il freddo
aumenta di nuovo. Il bordo del gommone si è fatto molle: l’acqua penetra più facilmente.
I corpi sono infreddoliti, ma gli animi sono sempre più accesi. Basta un niente, un piede che spinge,
un braccio che impedisce un sia pur piccolo movimento; una parola; una litania; una preghiera non
gradita dal vicino e scatta lo sgarbo, una spinta, un insulto.
Siamo stanchi, tutti.
Il capobarca ha rinunciato a farsi sentire. Ormai, anche lui, è sveglio da tante ore e comincia a
perdere lucidità.
La situazione ed il mare stanno peggiorando di ora in ora.
I miei bambini sono distrutti, Kenan si lamenta nel dormiveglia, Safaa, no. Lei finalmente è crollata
e dorme abbracciata al fratellino ed a Feimata. Io non riesco: ho nausea, ho freddo, ho paura,
soprattutto per loro. Questo mare sembra ogni momento volerci sommergere, avvolgere come un
sudario. E prego Allah di proteggere almeno loro: i miei bambini e Feimata. Lo prego di prendere
me, se vuole, ma di salvare loro.
Fa sempre più freddo e la notte è ancora lunga. Iitigi sono cessati. Tutti sono sfiniti e non hanno più
neanche la forza di discutere.
Dove stiamo andando?
È alba di nuovo. Siamo ancora tutti vivi, almeno credo: non vedo tutti i compagni di viaggio. Ho
pregato Allah tutta la notte. Forse per questo siamo ancora in vita; ma il mare è ancora più agitato
ed il vento freddo, spazza la prua e ci porta acqua da tutte le direzioni. Non ce la facciamo più. Io
sarei già crollata e, forse, sarei morta se non mi avesse sostenuta il pensiero dei figli e di Asad che
spero ancora di poter rivedere.
Il giovane Mosi, vicino a me, dorme. È stato sveglio tutta la notte. L’ho sentito mormorare; credo
pregasse.
Sulla barca, ormai c’è silenzio, rotto solo dal ronzio del motore e dal rumore continuo, martellante
del mare e del vento. Siamo sempre più lenti, sempre più sgonfi, sempre più affondati.
Ormai credo che manchi poco alla fine.
D’improvviso il motore tace. Prima, un silenzio carico d’ansia, poi, un brusio ed infine urla e pianti
disperati; la barca, ormai è alla deriva. Il carburante è finito. Siamo davvero all’ultimo atto.
Poi un rumore nel cielo. Credo di sognare, penso che sia la voce collerica di Allah che, prima di
chiamarci di là, ci rimprovera dei nostri peccati. Invece, una voce, da un punto della barca, urla:
“Guardate! Un elicottero!”
Alziamo tutti lo sguardo e lo vediamo: un elicottero si avvicina. È già quasi su di noi. Ha le insegne
verdi bianche e rosse. È italiano! Forse siamo salvi!
L’elicottero si ferma quasi sopra di noi e si ode la voce metallica di un altoparlante che sovrasta il
rumore del motore: “Be quiet! We are arriving to help and get you on safe! Not shake and wait
rescue boat coming in few minutes!”
Altro che stare calmi, altro che aspettare! Una ventina tra donne e uomini si alzano di colpo. La
barca oscilla violentemente. In quel momento un’onda, opera del diavolo in persona, si riversa, dal
lato opposto rispetto al nostro, sulle persone assiepate da quel lato.
In tanti, spaventati, balzano in piedi, si lanciano sul bordo opposto, dove siamo noi affollati e stretti.
La barca ondeggia paurosamente ed entra altra acqua.
È un attimo.
Sono in mare.
Con me Kenan ma riesco, ad afferrare un braccino. Mi rendo conto che, con me, cadono in acqua
anche Safaa e Feimata ed insieme, anche altri.
Rotolo nell’acqua ma non mollo Kenan.
Poi qualcuno mi cade addosso e me lo strappa di mano. È Mosi: ha perso l’equilibrio anche lui ed è
finito su di me.
Riemergo stordita, disperata; mi guardo intorno e lo vedo: vedo Kenan sotto il livello dell’acqua, si
abbandona senza forze e comincia a scendere. Urlo con quanta voce riesco ad avere! È tutta la voce
che mi rimane per il resto della vita. Lo chiamo. Lo chiamo. Lo chiamo: “Kenan!”. Ma lui è sotto e,
lentamente, affonda. Non reagisce, non risponde, è svenuto.
Vedo, come fuori da me, fuori dalla realtà, Mosi che fa una capriola e va giù, verso Kenan che sta
sparendo.
Non so quanto tempo passi: pochi secondi, un minuto; a me sembra un’ora. Non li vedo più, non
vedo né Kenan, né Mosi. Non capisco nulla, sono aggrappata ad una corda che pende dalla barca
ma neanche lo so. Sto soltanto guardando verso il fondo, dove sono scomparsi Kenan e Mosi.
Infine, prima un’ombra, poi Mosi risale. Tira la testa fuori, riprende fiato … è solo.
Guarda verso di me, gli occhi disperati, pieni di angoscia, di tristezza.
Non lo ha salvato.
Urlo, anzi credo di urlare: dalla bocca non esce più alcun suono. La voce l’ho usata tutta prima, per
chiamare Kenan. Ora non mi servirà mai più.
Lascio andare la corda che mi tiene al gommone e comincio a scivolare giù, verso Kenan che è lì, in
fondo al mare, da qualche parte; so che mi aspetta, mi chiama.
Mi sento afferrare; sei tu Feimata che mi prendi. Ti tieni anche tu a qualcosa della barca, ma io non
lo so; io ho perduto qualsiasi contatto con la realtà, con la vita; vorrei lasciarmi trascinare sul fondo
verso di lui, ma tu, Feimata, ancora una volta mi fermi, me lo impedisci. Mi tieni con forza e, d’un
tratto, mi rendo conto che Safaa mi è accanto, anche lei in mare, viva, vicina, sostenuta da Mosi che
la regge, mentre entrambi piangono con tutta la disperazione che hanno dentro.
Quanto tempo è passato così, in acqua, senza lacrime da parte mia, senza voce, senza capire, senza
sentire nulla se non un amore immenso, infinito per Safaa.
Sei tu, Safaa, che mi tieni in vita. Il resto è vuoto, è nulla: non riesco a pensarti, Kenan, non in quel
modo. Semplicemente, per me, tu sei da qualche altra parte.
6
Quanto dura? Non ho freddo, non ho sete, non ho fame; ho solo te, Safaa e ti guardo, ti stringo più
che posso, con il solo braccio libero che ho. Ti abbraccio con l’anima e non capisco, non conosco
altro.
Poi arriva qualcuno: è un uomo tutto coperto di gomma, ha in mano delle cinghie con le quali lega
Safaa e dopo anche me e voliamo su, in alto, verso l’elicottero. Chi sei uomo? Grazie per Safaa,
grazie per me, prendi anche Kenan?
Siamo a bordo dell’elicottero; qualcuno ci spoglia, ci asciuga, ci riveste, ci copre con una coperta
tutta d’oro. Non so neanche se è uomo o donna … e Kenan? Dov’è? Non lo vedo! Dov’è Kenan? E
Feimata? “Feimata è viva, è a bordo dell’imbarcazione della Marina Italiana che vi ha soccorso. Ha
parlato di voi e così abbiamo collegato te e la tua bambina a lei.” “E Kenan?” “Lo stanno cercando.
Coraggio!”
Il corpicino di Kenan lo hanno ripescato due giorni dopo. È stato un caso fortunato: la maggior parte
dei dispersi in mare, resta tale. Kenan è una delle migliaia di vittime di questo orribile esodo. È uno
dei bambini che ha pagato l’ingiustizia e le diseguaglianze di questo nostro Mondo.
La mamma è stata accompagnata a terra, riconosciuta e, grazie alla situazione del marito Asad, è
potuta andare a Parigi con Safaa e Feimata.
Era incinta di uno dei suoi torturatori.
Secondo uno studio dell’Unhcr, ad ottobre del 2016 i Migranti morti o dispersi nel Mediterraneo,
soltanto in quell’anno, erano stati quasi 3.700. Save The Children stima che seicento di questi
fossero bambini.
di Marcello Rosaroll De Martino (Diritti d’autore riservati). Foto di Roberto Malinconico.
Foto di corredo al racconto, molto bella ed indovinata. Che sguardo profondo negli occhi di questa Donna!
Grazie!