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Racconti per la Memoria: La fine della guerra

Domenico Modola di Domenico Modola
27 Gennaio 2023
in Impronte solidali, L'altro mondo possibile, Parole, Tempi Moderni
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Racconti per la Memoria: La fine della guerra
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In occasione della Giornata della Memoria, pubblico “la fine della guerra”, un racconto scritto da me qualche tempo fa. Si tratta di una storia vera, quella di mio nonno materno che è sopravvissuto all’inferno dei lager nazisti

La fine della guerra

Era una mattinata come tante altre nel campo di concentramento di Kaufering, Germania. Una solita, fredda e grigia mattinata del novembre 1943. Per gli internati del lager era iniziata la solita drammatica routine: sveglia alle 5, lavoro duro che consisteva nello scavare gli interni delle montagne circostanti, un pranzo a base di una brodaglia insapore e poi ancora lavoro e lavoro, senza l’abbigliamento adeguato al freddo tedesco ed infine, il riposo, se così si poteva chiamare, su delle fredde tavole di legno. La solita triste marcia di ebrei, zingari e dissidenti politici, ai quali da settembre si erano uniti anche tanti soldati italiani, raccattati qua e là per i campi di battaglia, a seguito dell’Armistizio di Cassibile. Tedeschi e italiani non erano più alleati, e molti soldati venivano fatti prigionieri, grazie anche alle milizie fasciste della Repubblica Sociale di Salò.

Tra gli italiani c’era Peppino, il soldato semplice napoletano, individuato e disarmato sulle Alpi italiane. Peppino non era un grande eroe, non gli interessava esserlo. Al momento della cattura da parte dei tedeschi, vagava sui monti intorno a Bolzano, da solo. Aveva saputo dell’Armistizio e credeva, come tanti altri, che la guerra fosse giunta al termine. Si era quindi messo in marcia per tornare a Napoli. Poi, sfortuna volle che sopraggiunse una camionetta tedesca che lo individuò e lo condusse a Kaufering. Per Peppino, quella mattinata di novembre del 1943 non fu la solita mattinata. Come tutte le mattine aveva svolto le attività e stava recandosi assieme ai suoi compagni di sventura a scavare la montagna per realizzare i loschi intenti dei nazisti. Hitler e i suoi avevano dato disposizioni affinchè, nella zona si realizzassero tunnel e fabbriche sotterranee, dato che quelle in superficie venivano sistematicamente bombardate dalle incursioni degli alleati. Il lavoro veniva svolto dai prigionieri del campo, costretti a vivere in condizioni igieniche pessime e soggetti alla malnutrizione.

Peppino era tra questi. Era già magro di suo, ed in guerra si sa, si mangia poco ma nel bene o nel male riusciva sempre a tornare al suo giaciglio di spigoloso legno, condiviso con un ebreo ed un commilitone calabrese. Una volta che i prigionieri, scalzi ed infreddoliti giunsero al cantiere cui stavano lavorando, fecero per dare il via alle attività, sotto il severo controllo delle SS. Accadde però che appena Peppino fece per alzare il piccone crollò. In quel momento le forze lo abbandonarono, lasciando spazio ad angoscia e dolore. Prese il sopravvento un respiro che si fece prima convulso e poi affannoso. Mentre giaceva, a pancia in giù, girando la testa vide che i suoi compagni avevano preso a picconare e scavare la montagna. Erano abituati a collassi o morti improvvise e, dopo qualche tempo ci facevano sempre meno caso. I nazisti, non gli diedero peso, spietati ed abituati com’erano a veder stramazzare prigionieri al suolo; gli lanciarono qualche occhiataccia e qualche mozzicone di sigaretta. Sta di fatto che, quella profonda crisi, lasciò spazio ad uno stato di torpore che portò Peppino allo svenimento.

Rinvenne dopo un pò, scoprendosi ricoperto di terra ed erbacce. Il fruscio del suo risvegliò destò l’attenzione delle SS che, voltatesi verso di lui, gli puntarono i fucili contro. “Bastardo italiano! Sei venuto al campo per dormire? Adesso ti facciamo saltare la testa!” ringhiò in tedesco un soldato, alto, massiccio e pallido, con una barba nera appena accennata. Peppino non capì una sola parola, dato che a stento parlava in italiano, però il tono e le armi puntate furono abbastanza esplicative. Riuscì ad alzarsi in ginocchio ed alzò le mani in segno di resa. Quattro soldati lo circondavano e gli puntavano i fucili. I loro volti pallidi erano divenuti rossi dalla rabbia.

Loro non sapevano però, che Peppino non si era appisolato per prendersi una giornata di vacanza. Egli infatti, era nato con una malformazione cardiaca che ogni tanto gli giocava qualche brutto scherzo. Non poteva compiere grossi sforzi e questo condizionò tutta la sua vita. Quando stava a Napoli non poteva lavorare nelle fabbriche o nel porto; doveva fare lavori poco faticosi. Vendeva fiammiferi, carbone, e poi qualsiasi altra cosa, con un banchetto piazzato all’angolo destro di Porta Capuana. Nonostante non fosse stato un venditore eccellente, aveva racimolato qualcosa, riuscendo a mettere su famiglia, sposandosi ed accollandosi le spese di un bugigattolo per sé, sua moglie Anna ed una figlia, Carmela, nata mentre lui combatteva al fronte.  

Tutto questo, i tedeschi non lo sapevano. Avevano davanti ai loro fucili un uomo che, per loro aveva dormito. Lo presero di forza, trascinandolo per alcuni metri. Dopodiché lo scaraventarono nuovamente al suolo, e gli legarono le mani con una fune. Di lì a poco, gli altri prigionieri sarebbero passati lì davanti per fare ritorno al campo. Le SS gli sputavano addosso, gli gridavano improperi in tedesco, lo strattonavano. Era ancora frastornato dal malore di poco prima, che andava a sommarsi alle angherie subite, alla fame ed alla disperazione. A mani legate Peppino cominciò a farfugliare qualche supplica ai santi, così come le aveva udite centinaia di volte dalle orazioni di sua madre e le sue sorelle. Era l’unica cosa da fare in quel momento, d’altronde di lì a poco lo avrebbero passato per le armi, e lui, da buon cristiano quale era, non poté fare altro che affidare a Dio la custodia delle sue persone care.

Qualche lacrima gli solcò il volto ed uno dei soldati tedeschi se ne accorse. Era un ventenne basso, grassoccio e con capelli rossi, aveva spessi baffi alla Bismarck e gote rosse da alcolizzato. Non era uno dei più temuti del campo, ma anche lui eccelleva in sadismo e godeva nell’infliggere sofferenze agli internati. Nel vedere Peppino, piangere e pregare propose ai commilitoni di divertirsi un po’ con il prigioniero: “anziché fucilarlo, perché non fargli scavare la fossa?”. Decisione approvata tra i ghigni dei nazisti presenti. “Italiano! Volevi dormire e pagherai con la vita per questo! Qui si viene per lavorare, o per morire. Ma non penserai certo che sprecheremmo energie per seppellirti. Morirai, ma la fossa te la scavi da solo!” urlò il nazista grassoccio, in tedesco.

Peppino non capì una sola parola, e nonostante il soldato lo avesse distolto dai suoi pensieri biascicati, riprese a pregare. Uno dei soldati, consapevole di non essere inteso, preferì essere telegrafico, e porgendo una pala a Peppino disse: “graben, schnell”, scavare veloce. “Vogliono che mi scavi la fossa da solo”, pensò Peppino, “ma io non ce la faccio, mi fa male il braccio e ho sempre quel problema al cuore, non fatemi scavare”, implorò ai soldati. “Graben italiano!” disse il soldato dai capelli neri mollandogli uno schiaffo. Peppino tentò di eseguire ma non vi riusciva: al minimo sforzo veniva preso da affanno ed era costretto a fermarsi. Scavò pochi centimetri. Dopo l’ennesima pausa forzata, si sedette su un piccolo masso vicino alla buca che stava scavando, ma la sua pausa fu disturbata da un terzo soldato, il più alto, un ragazzo biondo dal viso bianco e gli occhi azzurri, lo stereotipo dell’ariano tanto caro al Führer. Questi afferrò Peppino per la logora camicia e lo scaraventò in quell’accenno di buca: “italiano scavare buco! Altrimenti io uccidere te!”, e Peppino rispose “comandà, voi parlare italiano. Io non ce la faccio a scavare. Io avere male a cuore”. “Zitto italiano! Scavare buco, altrimenti io uccidere! Rauss!”

In quel momento, Peppino fu smosso da qualcosa di diverso. Smise di implorare e tirò fuori un altro tipo di temperamento: “me vuò accidere? Accideme! Tanto io muoio lo stesso, o mi spari tu, o muoio per la fatica, sempre oggi aggia murì”, gridò al soldato. Questi non comprese una sola parola ma, furioso per lo spunto di coraggio di Peppino, lo colpì con il calcio del fucile. Peppino, andò carponi cercando di rialzarsi e, proprio mentre notava che del sangue gli colava dal naso, scorse in lontananza i suoi compagni di sventura, fare ritorno verso il campo. Quello era il momento in cui, solitamente, le suore di un vicino convento, facevano visita ai poveri sventurati reclusi, portando loro qualche parola di conforto, una preghiera e davvero poco altro. I soldati tedeschi le lasciavano fare, in cambio di qualche stecca di sigarette extra, che le suore davano come “tassa” per poter pregare con i prigionieri.

Quella volta però, il supporto delle suore non fu per nulla inutile. Infatti, il battibecco tra Peppino e le SS, venne percepito da Suor Teresa, italiana d’origine ma da tanti anni insediata presso quel convento, la quale si frappose tra Peppino e i militari, pronta quasi a fare da scudo ed impedire l’esecuzione sul posto del milite italiano. Con piglio piuttosto deciso, e con un sicuro accento tedesco, Suor Teresa chiese ad uno dei nazisti, quello grassoccio: “cosa sta succedendo qui? ma non vi siete stancati di tutto questo sangue? Perché ne volete ancora? Sappiate che Cristo vi guarda e vi giudica. I vostri peccati non saranno perdonati e di certo avrete spalancate le porte dell’Inferno”.

La suora sapeva di poter alzare i toni: era anziana ed esperta, e sapeva che grossomodo, la sua posizione di suora godeva dell’indifferenza dei soldati tedeschi che, in merito al destino di questi piccoli conventi, non avevano avuto indicazioni. Ad ogni modo il soldato grassoccio ghignando, rispose alla suora spiegando l’accaduto: “il  bastardo italiano qui, non vuole lavorare e adesso, si deve scavare la fossa con le sue stesse mani, altrimenti lo uccideremo noi”. La suora guardò dardeggiante il soldato e si rivolse a Peppino, “Sei italiano tu? Da dove vieni?”, rivelando un forte accento lombardo; “Sono di Napoli sorella. Che bello che ci siete anche voi qua. Mi chiamo Peppino, Giuseppe. A questi pezzi di merda dovete spiegare una cosa, perché io non parlo tedesco, loro non capiscono me ed io non capisco loro. Mi sono accasciato mentre andavo a fare il lavoro obbligatorio. Ho un problema al cuore da quando sono nato. Ora loro la prendono come una scusa e vogliono farmi scavare la tomba da solo, ma per me è troppa fatica. Il mio corpo non ce la potrebbe fare” spiegò sommessamente Peppino, confidando tutto d’un fiato quella che era la sua situazione, appendendosi così ad una speranza bella quanto flebile.

“Va bene”, disse suor Teresa, “lasciami parlare con questi pazzi, vediamo cosa si può fare”, quindi, rivolgendosi alle SS in tedesco spiegò: “il prigioniero non è svogliato, è malato di cuore, ma è ancora intenzionato a prestare il suo servizio obbligatorio. Fate un’eccezione. Prendete quest’uomo e mettetelo nelle cucine, lì potrà continuare a lavorare senza problemi. Ve ne prego. Siete soldati di una guerra spietata, ma potreste fare un gesto di carità”.  Suor Teresa si accordò con i soldati per qualche rifornimento extra, in cambio della vita di Peppino, il quale, ancora in ginocchio nel freddo terreno tedesco, non capiva nulla di cosa stesse succedendo. La suora fece solo in tempo a sussurrargli un “tranquillo, sei salvo”, che Peppino, ancora confuso, venne sollevato da due soldati tedeschi e portato sul camion che trasportava i prigionieri. Appena giunsero gli altri internati, il camion si diresse verso il campo ed il cancello vi si richiuse alle spalle. I prigionieri scendevano stanchi e mesti, ormai svuotati di qualsivoglia stato d’animo. Peppino venne condotto nelle cucine, dove gli spiegarono che da quel momento si sarebbe dovuto occupare del rancio per i prigionieri.

Seguirono giorni migliori. Certo, dormiva ancora sul legno, ma adesso il suo lavoro era nelle cucine e, pelare le verdure e qualche patata era un compito sicuramente meno gravoso per le sue precarie condizioni di salute. Lavorando in cucina, aveva accesso anche ad una porzione più sostanziosa di cibo e, non più la brodaglia incolore destinata agli internati. Ora che si era rimesso in forze e mangiava anche meglio, cercava di fare il possibile anche per i suoi compagni di sventura: cercava sempre di ricavare una mezza patata bollita o un po’ di pane, da portare in camerata e distribuire in maniera più equa possibile, affinché tutti o quasi potessero mangiarne. Pelava ancora patate quando con i sovietici alle porte, i tedeschi cominciarono una corsa contro il tempo per cancellare le prove dello scempio dei lager. Le SS bruciarono documenti e archivi che provavano la loro lucida follia. Ammazzarono quanti più internati potevano, con fucilazioni e camere a gas ed infine, se la diedero a gambe. I sovietici infatti non dovettero lottare per accedere al campo e scoprire l’opera di sterminio messa in atto da Hitler. Dinanzi ai loro occhi si presentavano figure vuote, ridotte come scheletri,  uomini e donne completamente rasati e malandati. Per i prigionieri, ebrei, italiani, Rom, comunisti, quello fu l’inizio della libertà. ritornavano ad essere persone e non più un semplice numero.

I sovietici liberarono gli internati e, con svariati viaggi in camion, li accompagnarono alla stazione ferroviaria più vicina. Dalle parti della stazione di Kaufering, dunque si era creato un folto capannello di scheletri, ancora increduli e non ancora felici, perché la felicità era un sentimento che dovevano ritrovare dentro se stessi. l’unico treno che scendeva verso sud, era diretto ad Innsbruck, in Austria, a circa 150km da Kaufering. Peppino, come tanti altri ci si fiondò, senza alcun biglietto, né tantomeno i soldi per poterne acquistare uno. Il suo viaggio verso la città austriaca durò due giorni in totale, a causa delle frequenti interruzioni del traffico ferroviario, dovute a qualche bombardamento. Peppino era consapevole del fatto che il percorso verso casa non sarebbe stato semplice, né tantomeno rapido. Le strade e le ferrovie erano danneggiate ed interrotte e la gente, difficilmente si sarebbe fermata per dare un passaggio ad uno sconosciuto, vestito con abiti logori.

Voleva tornare a Napoli, anche se, della moglie Anna e la figlia Carmela non aveva più notizie da parecchio. “Madonna mia, fa che siano vive e stiano bene. Voglio tornare a casa e vedere la piccola Carmela come si è fatta grande. Avrà quattro anni? O cinque? Chi se lo ricorda. Era appena nata quando sono andato via, e speriamo che si ricordi lei di me. E se non sono vive? Se le hanno prese i tedeschi? E se mia moglie si è risposata? Io che faccio?” mormorava da solo, accovacciato sul sacco che conteneva i suoi effetti personali, sulla banchina della stazione di Innsbruck. Rimuginava in attesa del da farsi. Alla fine si convinse che doveva tornare a casa, nell’unica città che amava e che conosceva alla perfezione. Da Napoli non provenivano più notizie? Non sapeva cosa avrebbe trovato e cosa no? Certo, ma si convinse che comunque, valeva la pena di provare. Tra un tratto in treno e molti altri chilometri percorsi a piedi, giunse comunque entro i confini italiani. La guerra era agli sgoccioli ed anche la Repubblica di Salò era crollata. L’ennesimo treno che scendeva verso sud, si fermò alla stazione di Verona.

Un capannello di gente ascoltava la radio, appena fuori dalla stazione, parlavano in napoletano. Peppino vi si avvicinò e chiese a costoro se ci fossero notizie di Napoli: “Paisà siete di Napoli? Sentite io sono reduce e sto tornando dal lavoro obbligatorio dei tedeschi, me ne voglio tornare a casa mia. Che si dice a Napoli? Io tengo a mia moglie e mia figlia che forse mi stanno aspettando, ma non ho loro notizie da un sacco di tempo. Voi sapete qualcosa?” quasi una preghiera la sua, tipica di chi si aggrappa alle parole di sconosciuti, pur di avere notizie di casa. Il più anziano degli astanti, si voltò verso di lui sconfortato: “paisà, io di certo non posso sapere la signora vostra e la vostra creatura, come stanno, e se ci stanno ancora. Ma sentite a me: a Napoli, prima gli americani, poi i tedeschi, hanno fatto carne da macello. Bombe, mitragliatrici, rappresaglie; ci hanno distrutto una città. Pure il Monastero di Santa Chiara hanno buttato giù, stì fetienti. Statemi a sentire, non ci tornate a Napoli, non la riconoscereste più”. Peppino calò la testa e si allontanò sconsolato. La risposta non era stata d’aiuto. D’improvviso il respiro gli si fece affannoso e cominciò a sudare copiosamente. Riuscì a sedersi sul marciapiede della stazione. Lì svenne a causa del suo solito problema al cuore. Era da solo, nessuno si accorse dell’accaduto.

Si riprese dopo molti minuti e decise, di riprendere comunque il suo cammino verso casa. I malori sempre più frequenti montarono in lui un pensiero: prima di morire, prima che sia troppo tardi, devo rivedere la mia città.  Vedere con i propri occhi, qualsiasi scenario gli si sarebbe presentato, era sicuramente meglio del racconto di uno sconosciuto. Si accomodò quindi nel primo treno che andava a sud. Ne avrebbe cambiati almeno un paio. Scelse il posto accanto al finestrino, per poter guardare fuori, ma vi scorse solo distruzione. Nel vagone c’erano altre persone, ma nessuno voleva parlare. Qualcuno guardava fuori, altri in basso. I volti di tutti erano ammantati della mestizia che il conflitto aveva portato con sé. Il treno si fermò alla stazione di Firenze, in attesa della coincidenza e Peppino era rimasto al suo posto vicino al finestrino, immerso nei suoi cupi pensieri.

In quel momento sopraggiunse un altro treno, proveniente dal sud, destinato a sostare anch’esso nella stazione. Gli sguardi dei passeggeri dei due convogli si incrociarono.  Dal treno proveniente da sud, gli occhi di uno dei passeggeri riconobbero Peppino. L’uomo si sbracciò per farsi notare. Peppino si accorse del movimento di quest’uomo ben vestito ma, complice la stanchezza, faticava a riconoscerlo. “Don Peppino! Don Peppino Liguori delle Case Nuove! Sono io, Carmine Rivelli, del palazzo affianco al vostro, vi ricordate?  Tornate a casa che vi stanno aspettando!” gridò l’uomo dall’altro treno. Inaspettata arrivò quella notizia felice, come un raggio di sole che squarcia le nuvole dopo un temporale. “Grazie Don Carmine. Grazie assai. Che la Madonna ve lo renda”, solo questo riuscì a dire Peppino, prima di scoppiare in un pianto di gioia. Avrebbe voluto mettere le ali a quel treno che avanzava lentamente sui binari della ferrovia, avrebbe voluto trainare quel treno con la forza della sua felicità. Non vedeva l’ora di tornare a Napoli.

Il viaggio durò ancora qualche ora, con ancora uno scalo a Roma. La scocciatura di scendere da un treno per salire su un altro convoglio, era ormai impercettibile per Peppino. Giunto in prima serata alla stazione centrale di Napoli,  gli si presentò una città devastata dalle bombe e dalla povertà. Ovunque si girasse, scorgeva persone in cerca di un tozzo di pane, ma anche tante macerie e tanto degrado. Peppino però, non ci badò. Aveva solo casa sua in testa; alle altre cose ci avrebbe pensato poi.

Si incamminò quindi verso sinistra, passando accanto alla vecchia chiesa di Sant’Anna, danneggiata ma ancora in piedi. Davanti a sé, la scacchiera di palazzi del quartiere; da quel momento il passo di Peppino divenne veloce, fino a trasformarsi in corsa, senza pensare più alla fame, la stanchezza ed a quel solito problema al cuore. Casa sua si trovava al quarto piano dell’ultimo palazzo, quello più vicino alla Via Marina. Le bombe c’erano state anche lì, ma almeno il suo palazzo era rimasto in piedi. Un momento di sosta, per rendersi conto di essere davvero a pochi metri dalla sua famiglia, poi la corsa sulle scale. Un piede in fallo ed una caduta sui gradini. Un dolore fortissimo, ma quasi impercettibile in quel momento tanto agognato. Giunse finalmente davanti alla porta di casa. Si fermò un secondo e fece un respiro profondo, poi un altro. Sentì il cuore uscire dal petto, ma riuscì a resistere. Il suo corpo non doveva svenire. Non adesso. La porta d’ingresso era decisamente malandata. Una leggera spinta ed, in un attimo Peppino fu dentro casa: “è permesso?” disse.  Una bambina gli corse incontro ed era la piccola Carmela. Subito dopo, arrivò Anna, sua moglie che lo abbracciò scoppiando in lacrime.

La guerra era davvero finita.

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