Sembra passata un’epoca ma in realtà è trascorso appena un anno. L’11 febbraio 2020, conoscemmo quel nemico, quel virus potenzialmente mortale e gli esperti gli diedero un nome. Proprio in quella data infatti l’Organizzazione Mondiale della Sanità modificò il nome del nuovo coronavirus appena da poco individuato. Fu così quindi che il virus 2019-nCOV divenne SARS-Cov-2 e la malattia da esso causata venne chiamata Covid-19. Il nome, ormai noto in tutto il mondo è l’insieme di Co (corona), vi (virus), d (disease, malattia) e 19, l’anno in cui è stato identificato il virus.
Fu solo l’inizio. In quel periodo, il contagio stava assumendo dimensioni preoccupanti. In Cina cominciavano a conoscere il lockdown: città popolate da milioni di cittadini, di colpo svuotate, così come le immense boulevard che le costituiscono. Per le strade di Wuhan, epicentro della pandemia, solo personale medico e rider per la consegna di cibo e farmaci. Tuttavia la Cina non c’è stata ad assumere il ruolo di paese untore: in poco tempo a Pechino hanno predisposto un sistema funzionante, con modalità e tempi da record. Il governo ha dato sfoggio di sè: tamponi ad ogni angolo per qualsiasi spostamento, ospedali costruiti in pochi giorni e sostegno garantito a tutti i lavoratori costretti a casa dal lockdown.
Tuttavia, se in Cina, circa 60 milioni di abitanti della regione di Wuhan entravano in lockdown, in Europa e in tutto il pianeta, non c’era una chiara percezione del pericolo reale. Le immagini spettrali che ritraevano Pechino, Wuhan e Shangai completamente deserte, apparivano quasi fantascientifiche, così come appariva lontana la possibilità che questo virus interessasse in larga misura anche altre parti del mondo. I primi casi italiani vennero individuati alla fine di febbraio e soltanto ad inizio marzo l’Italia si sarebbe trovata a vivere le stesse restrizioni della Cina.
In Italia l’epicentro del contagio è stato identificato nell’area di Bergamo, laddove la curva del contagio ha fatto registrare i numeri sempre più alti rispetto al resto del paese. Nel frattempo l’11 marzo veniva dichiarato lo stato di pandemia: una condizione che si verifica quando il contagio è diffuso e continuo. Secondo i parametri dell’OMS, si parla di pandemia quando siano superati i 100.000 contagi e il virus interessi più paesi di tutti i continenti. L’Italia venne riconosciuta come uno dei primi paesi a correre ai ripari per scongiurare il contagio.
Il lockdown ha cambiato le vite di tutti: dal lavoro allo smart working, dalla scuola alla Dad; negozi, ristoranti e locali chiusi fino a data da destinarsi. Di conseguenza, alla grandissima crisi sanitaria è seguita una crisi economica di proporzioni incalcolabili. Molte le attività che non hanno più riaperto a maggio, quando le misure restrittive sono state allentate. Le difficoltà economiche a carico delle imprese poi, si sarebbero tradotte in licenziamenti indiscriminati e disoccupazione in crescita. Effetti mitigati dal blocco dei licenziamenti e dalle casse integrazione imposti dal governo. Un blando intervento, che non fa altro che rinviare gli effetti disastrosi di un intervento che poteva essere migliore.
L’11 febbraio 2020 quel nemico ebbe un nome e cominciammo a sapere come chiamarlo; non lo conoscevamo bene. Non era chiara la sintomatologia, la capacità di diffusione e la sua potenziale letalità. Un nemico chiamato Covid-19 che ha stravolto totalmente le nostre vite, le nostre attività economiche e le nostre relazioni sociali. Le conseguenze sulle categorie più fragili sono state individuate poco dopo, specie nell’ambito psicologico. Altrettanto evidente è stato il disagio provato dalla convivenza forzata e dalla brusca interruzione delle abitudini di tutti i giorni. Sono aumentati i casi di violenza domestica e gli episodi di intolleranza reciproca. Tutto per quel virus che l’11 febbraio venne battezzato come Covid-19, ma che avremmo preferito non conoscere.