di Carmine Malinconico
Il digiuno fino alla morte è diventato, in Turchia, una forma estrema di rivolta contro il regime. Questa pratica ha una storia che nasce nelle carceri di Dyarbakir dopo il colpo di stato del 12 settembre 1980. I militari imprigionarono migliaia di oppositori e di militanti, sia della sinistra turca che dell’appena nato Pkk. Ogni opposizione veniva stroncata sul nascere, con estrema violenza. Agli oppositori spesso rimaneva solo o l’esilio o la rivolta nelle carceri. Alcuni dirigenti del Pkk organizzarono grandi rivolte in varie carceri, in particolare a Dyarbakir. La risposta del regime fu brutale. Mazlum Dogan fu bruciato vivo in carcere ne marzo del 1982. La stessa sorte toccò a Ferhat Kurtay, a Necmi Onen, a Mahmut Zengin a Esref Anyik. Di fronte a quella repressione brutale e alla privazione di ogni altra forma di manifestazione del pensiero, alcuni detenuti ritennero che l’unico strumento di lotta di cui non potevano essere privati era il loro corpo. Così il digiuno contro cui nulla poteva essere fatto divenne la loro arma di lotta. Morirono così, tra il 1982 e il 1984, Kemail Pir, Hayri Durmus, Akif Ylmaz, Ali Cicek, Abdullah Meral, Haydar Basbag, Fatih Okutmus e Hasan Telci.
Da allora, questo modo di lottare è stato più volte utilizzato, specie nei periodi più bui della storia recente della Turchia.
In ultimo Ibrahim Gokcek ed Ebru Timtik.
Si possono sollevare dubbi e riserve di questa pratica, e non sarebbero del tutto incongruenti.Tuttavia, quando anche la parola è negata, porre il proprio corpo come ultimo baluardo della libertà forse diventa comprensibile.
L’atto d’amore estremo verso l’umanità, l’atto di accusa più feroce contro la barbarie.
Queste donne e questi uomini appartengono a tutti coloro che non temono di pagare un prezzo per difendere il diritto di tutti a vivere in un mondo migliore di questo.







