Il significativo coinvolgimento globale che la regione del Sud-est asiatico sta vivendo negli ultimi anni ha inevitabilmente innescato un’enorme espansione economica. Cruciale il ruolo dei governi nel predisporre misure volte a tutelare i milioni di lavoratori che stanno permettendo, con i loro sacrifici, questa nuova scalata economica. Ma quanto deve essere alto il prezzo da pagare?
Riceviamo e pubblichiamo, articolo a cura di Chiara Quaranta
Storia dell’industrializzazione del Sud-est asiatico
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale inizia per questi territori un periodo di decolonizzazione: un capitolo turbolento e segnato da violenti conflitti interni che avevano come obiettivo l’indipendenza dalle forze europee. Gli americani, intimoriti da una possibile espansione comunista nella regione, desideravano mantenere un certo controllo per assicurare l’instaurazione e il mantenimento di governi democratici e liberali.
Con la fondazione dell’ASEAN (Association of Southeast Asian Nations), 1967, inizia un periodo di cooperazione economica e integrazione regionale grazie alle quali la regione vive una crescita rapida e sostenuta. Protagoniste assolute sono le 4 Tigri Asiatiche (Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud e Singapore) che diventano una guida per gli altri paesi limitrofi, come Thailandia, Malesia e Indonesia, verso un processo di modernizzazione e industrializzazione orientata alle esportazioni.
Con la grave crisi finanziaria che colpisce l’Asia nel 1997, questa crescita subì una battuta d’arresto senza precedenti segnando la fine del cosiddetto “miracolo economico” asiatico.
Lavoro informale e precario nella regione
Grazie all’intervento finanziario americano, le economie asiatiche intraprendono un percorso di recupero ma non prima di aver sanato i debiti che avevano contratto con le Banche occidentali. Infatti è solo negli ultimi due decenni che i risultati di questo percorso sono stati più visibili anche se non sono più stati raggiunti i livelli di crescita pre-crisi.
Questa nuova ondata di crescita e sviluppo economico non è stata adeguatamente accompagnata da un’attenzione per i diritti dei lavoratori. La frenesia di recuperare il livello economico di un tempo e le poche opportunità che la popolazione ha per sopravvivere ha portato i lavoratori ad accettare, tra le altre cose, contratti precari, orari disumani, straordinari obbligatori e condizioni di lavoro non sicure. Questi aspetti possono essere raggruppati nel cosiddetto “lavoro informale”, che, secondo la definizione dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), “si riferisce al lavoro remunerato svolto in unità economiche formali e informali che non è assoggettato alla legislazione o alle prassi del lavoro, alle imposte sul reddito, alla disciplina della previdenza e protezione sociale e che non riconosce il diritto a determinate prestazioni lavorative”.
Gruppi sociali più vulnerabili e interventi governativi
La percentuale di lavoratori informali si aggira intorno all’80% in alcuni paesi della regione dell’ASEAN[1]. Partendo da questo presupposto si può affermare che stiamo parlando di una vera e propria piaga regionale. I gruppi sociali che maggiormente subiscono questa condizione sono le donne, le quali spesso affrontano discriminazioni salariali, molestie sessuali e mancanza di tutela per la maternità, i migranti, la cui disperazione li porta ad essere facili prede del “sottosopra” economico, e i bambini, che rinunciano precocemente alla loro infanzia e adolescenza.
Tenendo presente che si sta parlando di Paesi in cui i sindacati sono abitualmente repressi e i lavoratori (regolari) che cercano di organizzarsi sindacalmente ricevono intimidazioni da parte dei datori di lavoro, non è difficile immaginare quanto vengano ancora più ignorati e calpestati i diritti dei lavoratori informali.
Cosa fanno i governi per arginare questo problema? A livello teorico hanno predisposto aggiornamenti e revisioni dei codici del lavoro in modo da integrare la tutela dei diritti di questo tipo di lavoratori; in alcuni paesi hanno esteso i programmi di protezione sociale anche al settore informale (come il programma di protezione sanitaria Universal Coverage Scheme in Thailandia e il programma BPJS Ketenagakerjaan in Indonesia che oltre dell’assistenza sanitaria si occupa anche degli incidenti sul lavoro e delle pensioni). Purtroppo questi programmi faticano a tradursi in azioni pratiche a causa di diversi fattori tra cui le limitate risorse finanziarie e umane di cui dispongono gli ispettorati del lavoro, la corruzione all’interno delle istituzioni pubbliche, la resistenza sociale e culturale al cambiamento e la debolezza dei sindacati che in alcuni paesi devono affrontare sfide soprattutto politiche.
[1] https://www.nst.com.my/business/corporate/2023/11/980273/79pc-those-employed-asean-countries-are-informal-workers