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Nakba: la catastrofe che cambiò la vita dei palestinesi

Domenico Modola di Domenico Modola
15 Maggio 2024
in Culture resistenti, Impronte solidali, L'altro mondo possibile, Tempi Moderni
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Nakba: la catastrofe che cambiò la vita dei palestinesi
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Il 15 maggio per i palestinesi si ricorda la “Nakba”, l’esilio forzato cui furono costretti dall’esercito israeliano: era il 1948. Per i palestinesi questa data segna l’inizio di tutte le loro sofferenze.

Basta scavare poco per capire che c’è ben altro oltre il 7 ottobre 2023. Prima di quella data e dell’incursione di Hamas, utilizzata dalla narrazione filo-sionista per giustificare la violenza israeliana, ci sono anni di episodi sottaciuti dai media. Anni in cui Israele ha rosicchiato, giorno dopo giorno, porzioni di territorio, insediando coloni nei territori palestinesi, piazzando l’esercito a difesa dei nuovi insediamenti e negando alla popolazione palestinese, qualunque diritto. La sofferenza palestinese è tanta, specialmente in queste ore, con l’insediamento di Rafah piegato dalle bombe di Israele, con 2 milioni di persone costrette a fuggire ancora una volta senza meta. Tutta questa sofferenza ha una data d’inizio: 15 maggio 1948. Quella che viene ricordata dai palestinesi come “Nakba”: la catatrofe.

La “Nakba”: il significato profondo

Nel 1948 venne istituito lo stato d’Israele, dopo anni in cui la presenza ebraica sul territorio si era fatta sentire con decine di attentati ai soldati inglesi (all’epoca era da poco venuto meno il protettorato della Gran Bretagna sulla Palestina), e alla popolazione palestinese. Nell’arco di tutto il 1948 comunque, circa 700.000 palestinesi furono costretti a lasciare le proprie case, sfrattati con la forza dall’esercito israeliano. Quei momenti catastrofici vengono ricordati il 15 maggio, ovvero un giorno dopo la data di fondazione di Israele, il 14 maggio 1948.

Gli insediamenti palestinesi vennero distrutti: centinaia di villaggi vennero rasi al suolo, e la popolazione che vi abitava non potè mai più farvi ritorno. Perdere una casa vuol dire essere sradicati dalle proprie radici; è per questo motivo che molti palestinesi custodiscono gelosamente ancora la chiave d’ingresso della vecchia casa. La chiave oggi, è uno dei simboli della resistenza e della volontà dei palestinesi di tornare nei luoghi occupati.

La catastrofe infinita

Le espulsioni forzate, gli abusi e le violenze compiute dall’esercito israeliano, non si fermarono nel 1948. Dopo aver ottenuto il benestare dell’ONU sull’occupazione di territori non previsti nell’iniziale accordo sulla fondazione di Israele, nulla riusciva più a fermarli. Negli anni, altre centinaia di migliaia di palestinesi furono espulsi dai loro villaggi. In molti casi gli insediamenti sono stati rasi al suolo per fare spazio a nuove aree residenziali per coloni di religione ebraica, che nel frattempo giungevano a frotte da ogni parte del mondo e prendevano cittadinanza israeliana.

Nakba: una catastrofe lunga 76 anni

Sono passati 76 anni da quel 1948, e la catastrofe ancora continua. Nel corso di questi anni, non si è mai assistito ad un periodo di sostanziale pace nei territori occupati. Infatti, anche quando non piovono bombe e non ci sono arresti sommari ed uccisioni immotivate, la vita per i palestinesi è molto difficile nei territorio occupati. Allo stato attuale, il territorio palestinese è diviso in due:

  • Striscia di Gaza: un’area di 365 km circa, abitata da 2,2 milioni di persone. La zona è chiusa da alte recinsioni e mura, cosa che la rende a tutti gli effetti il carcere a cielo aperto più grande del mondo. La Striscia di Gaza vive in questa situazione dal 2005, anno in cui il governo israeliano ha ordinato a tutti i coloni che vivevano nell’area di abbandonare gli insediamenti e trasferirsi altrove. Con questo metodo, Israele impedisce a qualunque palestinese di uscire dalla Striscia e di muoversi liberamente. Eccezion fatta per alcuni casi urgenti e gravi come quelli sanitari, che comunque dovevano passare al vaglio delle autorità israeliane, nessun palestinese ha goduto della libertà di movimento sancita dal diritto internazionale. Se si pensa che nella Striscia, chi ha meno di 18 anni non ha mai visto altro che quei luoghi, si può comprendere parte della frustrazione e della rabbia di quel popolo.
  • Cisgiordania: Un territorio altamente frammentato, teoricamente in mano alle Autorità Palestinesi, ma di fatto gestito dall’esercito israeliano. Nel corso degli anni sono stati realizzati tantissimi insediamenti per i coloni israeliani, tutti abbondantemente presidiati dall’esercito, il quale rende difficile la vita dei palestinesi, anche nella gestione delle attività quotidiane. Le testimonianze parlando abusi e soprusi subiti anche per accompagnare i bambini a scuola, ricevere un permesso per una ristrutturazione, vendere o comprare dei beni o celebrare un funerale. Si parla di centinaia di episodi di arresti arbitrari, umiliazioni e detenzioni spropositate per il tipo di accusa.

Ci sarebbe un terzo territorio palestinese, quello di Gerusalemme Est, garantito dalla presenza di luoghi sacri per la religione musulmana come la moschea di Al-Aqsa, ma anche lì, Israele insedia nuovi coloni, tortura e massacra.

La narrazione oltre il 7 ottobre

Per l’opinione pubblica meno informata e attenta (ma non è colpa loro, è colpa dei media), quanto accade in queste ore in Palestina sarebbe una semplice reazione israeliana agli attentati del 7 ottobre, quando circa 2000 miliziani palestinesi, sfondarono le recinzioni entro cui erano confinati ed aprirono il fuoco con lanci di razzi (non missili, come fa Israele), e armi da fuoco varie, uccidendo circa 1.500 persone. L’opinione pubblica filo-israeliana non ha dubbi sul condannare tale episodio e, di conseguenza, giustificare le bombe come rappresaglia.

Per fortuna il diritto internazionale è meno opaco, perchè da un lato condanna gli atti del 7 ottobre, ma dall’altro comprende i motivi che hanno generato un episodio del genere; inoltre si condanna la rappresaglia israeliana, etichettando le violenze di Tel-Aviv come genocidio e si sottolinea come, nel ruolo di esercito occupante, l’IDF non stia rispettando nemmeno uno degli accordi internazionali sottoscritti da Israele. Quell’attacco agli insediamenti israeliani (illegittimi) seppur tremendo, arriva da anni di sofferenze, molte di queste iniziate nel 1948 con la Nakba.

Assedio di Rafah: la Nakba 2.0

Da alcuni giorni è in corso l’assedio di Rafah, l’ultimo insediamento della Striscia di Gaza, prima del confine con l’Egitto, ovviamente chiuso. Rafah è una cittadina di circa 170.000 abitanti, dove hanno trovato rifugio oltre 1,5 milioni di sfollati, arrivati da Gaza e dall’area nord della Striscia, per sfuggire ai bombardamenti israeliani. A nulla sono valsi gli appelli di operatori umanitari, associazioni, attivisti e della stessa ONU, contro un’operazione militare in un territorio così densamente popolato: l’esercito ha sganciato le prime tonnellate di bombe, uccidendo circa 200 persone, tra cui molti bambini.

Benjamin Netanyahu ha dichiarato ai media di tutto il mondo, che la popolazione locale è stata invitata a lasciare Rafah, ma basta poco per comprendere che si tratta di un’operazione di facciata. Infatti, i profughi di Rafah, sono in trappola: a sud c’è il valico che porta in Egitto, e quello è chiuso; a nord, tutto il territorio è occupato dall’esercito; insomma, scappare si, ma per andare dove? L’intento di massacrare quanti più palestinesi possibile è più che manifesto.

Sono molti i palestinesi che parlano di una nuova Nakba, una nuova catastrofe, perchè martedì 14 maggio, oltre alle bombe, a Rafah è arrivata la tanto temuta operazione di terra. Chi sopravvive si trova a convivere con gli abusi e le violenze, vivendo in condizioni precarie dal punto di vista igienico-sanitario, mentre mancano, acqua, cibo e medicine, perchè tutti gli aiuti vengono bloccati al valico dai cittadini israeliani che distruggono tutto quello che il mondo invia per aiutare la popolazione oppressa.

Nel mondo

Il popolo non sempre corrisponde a chi lo governa, per fortuna. Mentre i governi occidentali continuano a inviare armi a Israele e ad appoggiarlo in sede ONU, i cittadini si mobilitano, protestano e portano la bandiera palestinese, la kefiah e l’anguria in tutte le piazze, ma non solo. Oltre alle centinaia di manifestazioni che riempiono le strade di tutte le città, c’è da segnalare quella che è stata definita “l’intifada delle Università”: dagli Stati Uniti, passando per il Canada e i principali atenei europei e italiani, gli studenti si accampano nelle sedi universitarie. Con le loro tende e le bandiere palestinesi, è attiva una protesta massiccia per chiedere alle Università di ritirare gli accordi con Università e aziende israeliane. Tutto questo avviene sfidando la repressione da parte delle forze dell’ordine e della censura mediatica.

La mobilitazione di questi giorni è tale che solo quella fatta negli anni ’60 contro la guerra in Vietnam può essere paragonabile. Oggi come allora, gli studenti che sono e saranno il futuro di questo mondo, si dichiarano contro la guerra, perchè forse più di altri hanno introitato i valori della pace e della democrazia.

Nel frattempo, per tutti i paesi del mondo diventa sempre più difficile fingere di non vedere il genocidio che Israele sta portando avanti. Paesi come la Turchia e il Venezuela hanno interrotto gli accordi commerciali con Tel Aviv, altri paesi esprimono dichiarazioni di condanna e altri, come l’Egitto che appoggerà il Sud Africa nel processo intentato a Israele presso la Corte Internazionale dell’Aia.

Palestina nell’ONU

Anche l‘Assemblea Generale dell’ONU sta cambiando progressivamente il passo. Il 10 maggio L’Assemblea ha dichiarato lo Stato di Palestina come candidabile per diventare membro dell’ONU. La votazione ha visto il voto favorevole di 145 stati, 25 astenuti e 9 contrari. Tra gli astenuti, molti stati europei tra cui Italia e Germania, mentre tra i contrari ovviamente Stati Uniti e Israele. La votazione ha una portata storica, non solo per la ridicola pantomima del rappresentante israeliano che, nel dichiarare la sua indignazione per il voto, ha tritato una copia della Carta delle Nazioni Unite. Ma sarà ricordata come l’esempio ancora più palese dell’isolamento geopolitico di Israele e Stati Uniti, imperterriti intenzionati a portare avanti un genocidio, per fini economici ed ideologici.

Il senso del ricordo

Oggi, ricordare la Nakba vuol dire continuare a tenere fisso lo sguardo su quella porzione di mondo che è la Palestina; un luogo in cui sta avvenendo un genocidio in diretta, su cui, pur chiudendo gli occhi, non si può non fare attenzione. Per il cessate il fuoco, per lo stop al genocidio, per una Palestina Libera.

Tags: culture resistentiImpronte socialiimpronte solidalinakbapalestinapopolo palestinese
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