Il 3 maggio è riconosciuto come giornata mondiale per la libertà di stampa. Tra censure, influenze politiche e rappresaglie per chi racconta la verità, la libertà di fare giornalismo è in forte calo.
Il giornalista è un lavoro duro. Specie se lo si esercita in un paese sotto regime autoritario, se lo si esercita in zone di guerra o dove, progressivamente le leggi mettono il bavaglio alla libera informazione. Il 3 maggio si celebra la giornata mondiale per la libertà di stampa e oggi, tale libertà è in serio pericolo.
Secondo i dati del Press Freedom Index, l’indice per la libertà di stampa redatto da Reporter Sans Frontieres (reporter senza frontiere, RSF), i giornalisti di tutto il mondo sono sempre meno liberi. Ogni anno la RSF stila una classifica, dal paese con più libertà di stampa, a quello meno libero. Il podio è tutto del Nord Europa con Norvegia al primo posto, seguita da Danimarca e Svezia. La maglia nera invece, spetta ad Afghanistan, Siria ed Eritrea, che occupa il 180° e ultimo posto.

Libertà di stampa: e l’Italia?
La situazione non è delle migliori per il giornalismo nel nostro paese. Nel 2024, l’Italia si posiziona al 46° posto, in calo di 5 posizioni rispetto al 2023. La libertà di stampa secondo il Press Freedom Index, segue una parabola discendente da alcuni anni. Questo indica che il giornalismo libero è sempre più ostacolato dalla presenza di criminali, ma anche da leggi sempre più restrittive.
Riguardo l’Italia il sito ufficiale di RSF recita: “La libertà di stampa in Italia continua ad essere minacciata dalle organizzazioni mafiose, soprattutto nel sud del Paese, nonché da vari piccoli gruppi estremisti violenti. I giornalisti denunciano anche i tentativi da parte dei politici di ostacolare la loro libertà di coprire i casi giudiziari attraverso una “legge bavaglio” – “legge bavaglio” – oltre alle procedure SLAPP che sono una pratica comune in Italia”.

La realtà dei fatti
Tuttavia non servono delle statistiche per comprendere che la libertà di stampa sia in pericolo. Basta guardare cosa succede nel nostro paese, specie in merito sui temi “scomodi”, e la fine che fanno i giornalisti che non seguono la linea di comunicazione governativa.
Gli esempi sono innumerevoli, ma basta pensare a quanto accaduto in occasione del 25 aprile in RAI, con il caso Scurati. Allo scrittore è stata impedita la lettura in diretta un monologo che ricordava gli orrori compiuti dal fascismo; alla giornalista Serena Bortone che per protesta contro la dirigenza, ha voluto leggere quel monologo, sono state “promesse” misure disciplinari e forse la chiusura del programma.
Censura, rappresaglie e spostamento di giornalisti scomodi, è la tendenza con cui il governo italiano mette a tacere le notizie scomode, ma c’è anche la violenza. Oggi i giornalisti sono esposti a rischio perché semplicemente raccontano la verità. Basti pensare a quanto accaduto il 25 aprile quando una giornalista RAI nel documentare gli scontri tra la Brigata ebraica e i manifestanti pro-Palestina, si è vista aggredita da un energumeno che ha costretto con la violenza, la giornalista ad autocensurarsi e a ritrattare la prima versione della notizia. Il tutto è accaduto in diretta tv, mentre la giornalista veniva accerchiata e la telecamera veniva oscurata dagli stessi componenti della brigata.
Libertà di stampa: di giornalismo si muore, in Palestina
La libertà di stampa è un diritto che fa esplicito riferimento all’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo in merito alla libertà di espressione; ma perché è così ostacolata dai governi? Perché fare giornalismo vuol dire raccontare la verità, e spesso quella verità è scomoda per i governi e le istituzioni, che preferirebbero nasconderle.
Si pensi a quanto danno fastidio i giornalisti di guerra, quelli che attualmente documentano l’orrore nella Striscia di Gaza, che sopravvivono e resistono insieme alla popolazione. Lo stato israeliano ha sempre avuto un cattivo rapporto con chiunque sia entrato nelle zone occupate per documentare gli orrori e le violazioni dei diritti umani a danno del popolo palestinese. Nei decenni addietro, le zone bombardate dall’IDF venivano interdette ai giornalisti, o venivano nascosti i feriti. Nel frattempo, Tel Aviv continua a dettare la sua linea e a tenere sotto scacco l’informazione occidentale, la quale è colpevole, in questi mesi di un‘informazione distorta, fallace e non rispettosa degli oltre 35.000 palestinesi uccisi.
Negli ultimi 10 anni Israele ha ucciso 97 giornalisti palestinesi e internazionali, ma dal 7 ottobre 2023, ne ha uccisi 140 circa, messi a tacere per sempre. Molti di essi hanno perso la vita nei bombardamenti, seguendo il destino della popolazione, ma in molti altri casi sono stati obiettivi mirati, individuati grazie al giubbotto antiproiettile e il casco con la scritta “press”. A quei giornalisti va tributato un enorme elogio, per aver documentato i bombardamenti, i massacri, i macabri ritrovamenti e tutti i momenti di sofferenza del popolo palestinese. Sempre in prima linea, atti a documentare attraverso i loro social network e grazie al contributo di testate come Al Jazeera.
Un lavoro? No. Una missione
Il lavoro del giornalista consiste nell’informazione corretta e nella ricerca costante della verità. I giornalisti in Palestina, quelli che lavorano in zone di guerra, quelli che documentano gli scandali della corruzione e delle mafie, pagano con la vita, quella che è una vera e propria vocazione alla verità. L’informazione è un’arma potente, che può influenzare l’opinione pubblica, accendere i riflettori su ciò che non va nel mondo. Un arma che spesso i governi tendono a piegare, creando un panorama di informazioni distorte e fallaci, mettendo le mani sui consigli d’amministrazione e influenzando le scelte editoriali. Quando questo non è possibile, si parla di vera e propria libertà di stampa, la vera e propria arma che risponde al principio della libertà d’espressione, e che può essere una vera e propria spina nel fianco del potere.