Un salto indietro ai colorati anni ’90 dai nuovi colori del Giappone odierno
Ho da poco guardato un episodio della serie Willy il principe di Bel-air, S01x06 “Mistaken identity – Rei confessi”. Questo episodio è stato trasmesso per la prima volta nell’ottobre del 1990. Consiglio di guardarlo attentamente, specialmente a coloro che sono interessati al movimento Black Lives Matter, perché espone in modo chiaro come le cose non siano molto cambiate nell’arco di trent’anni.
Pochi non conosceranno lo show: il protagonista è Willy (Will Smith), un giovane adolescente nero di Philadelphia che viene ospitato dalla ricca famiglia americana di sua zia. Si tratta di una sit-com di una famiglia nera spesso circondata da altri personaggi neri, con pochissimi attori bianchi in scena.
Noi italiani abbiamo visto e amato diversi programmi di questo genere trasmessi a livello nazionale: dall’esilarante Tutto in famiglia al nuovissimo Black • ish, siamo abituati alla cultura afroamericana senza esserne veramente esposti. Il doppiaggio, assieme alla necessità di adattare battute o allusioni nel prodotto originale che non avrebbero funzionato in italiano, ha contribuito a farci godere gli show senza pensare troppo al loro bagaglio culturale o ai messaggi da leggere fra le righe.
Nell’episodio in questione, Willy e Carlton vengono fermati dalla polizia e finiscono in prigione con l’accusa di furto d’auto (il che, ovviamente, è infondata). I due adolescenti sono rilasciati solo tramite l’intervento dello zio Phil assieme al suo collega bianco, il sig. Furth.
Zio Phil (a sinistra) avverte il poliziotto che ha arrestato due minorenni senza seguire la procedura legale. A destra, il suo partner, il signor Furth. Più tardi, Carlton commenta: <<Sai, è stato davvero gentile il sig. Furth a tirarci fuori dai guai. Gli scriverò un biglietto di ringraziamento >>. A sottintendere che la scarcerazione è avvenuta grazie dall’avvocato bianco, il quale è solo dovuto entrare in scena per mettere a posto le cose.
Alla fine dell’episodio, Carlton dà voce alla classe media americana (bianca o che si sente tale). Discutendo con Willy, è dell’opinione che la polizia stesse solo svolgendo il proprio lavoro.
<< Non vuoi proprio capire, vero? Nessuna carta potrà salvarti, neache il tuo club di golf oppure la tua villa a Bel-air con piscina e neanche un padre avvocato. Perché quando sei alla guida di una bella macchina lontano dal tuo quartiere, niente ha più importanza! >>
<<Loro vedono solo una cosa!>>
Dopo aver discusso con Will, Carlton chiede a suo padre:
<<Se fossi un poliziotto, e se vedessi una macchina che va a due miglia all’ora, non la fermeresti?>>
La risposta di zio Phil è eloquente:
<<Mi sono fatto la stessa domanda la prima volta in cui mi hanno fermato>>.
Il padre lascia la stanza. Carlton resta solo, triste e confuso.
Poi dice: <<Io l’avrei fermata>>.
Una lenta carrellata indietro lo riprendende nel mezzo del salotto, in silenzio.
Vi si legge un messaggio profondo da rivedere in questo periodo; le ultime battute dell’episodio rappresentano quasi la lotta interiore degli americani, che a sua volta riflette una lotta più grande in ognuno di noi.
Ma tutto ciò mi ha anche riportato alla mente altre cose.
Un paio di giorni dopo il mio ritorno in Giappone nel 2015, io e altri amici ci fermammo in una caffetteria dopo essere stati al Kanamara Matsuri (siete invitati a cercarlo su Google, e non c’è di che), quando la mia amica italiana e io decidemmo di tornare a casa. L’amico giapponese, invece, non voleva tornare. Lui ci pregò, tuttavia, di recuperargli la bici dal parcheggio della stazione di Tobitakyū e di riportarla al campus universitario (dove vivevamo).
Ci diede il codice del lucchetto; noi trovammo la bici e la portammo via da lì senza problemi.
O almeno così pensavamo, perché, appena uscite dal parcheggio sotterraneo, due poliziotti giapponesi che stavano proprio dall’altra parte della strada iniziarono ad interrogarci.
Ci domandarono chi fosse il proprietario della bici e chiamarono per confrontare il nome con il numero di immatricolazione del veicolo (in Giappone le biciclette sono registrate e devono essere anche assicurate).
I poliziotti sentirono il bisogno di giustificare la loro azione, dicendo che trovavano strano che due straniere spingessero una bici.
Aggiunsero anche: << Ci dispiace, ma ci sono stati tanti furti di biciclette, ultimamente>>.
Ci sono stati tanti furti di biciclette.
Suona così simile alla scusa ricorrente della polizia nella sit-com:
<< Ci sono stati tanti furti d’auto in questa zona, ultimamente>>.
I poliziotti verificarono la bici, diedero un’occhiata ai nostri tesserini universitari e alla fine fummo libere di andare.
Eppure, tornando al dormitorio, non potevo fare a meno di pensare: state subendo molti furti di biciclette, quindi avete pensato che due ragazze bianche potessero averne qualcosa a che fare.
Ci tengo a precisare che in Giappone un bianco è straniero tanto quanto un nero, e solo tratti fisici giapponesi possono risparmiare dal giudizio.
Sono stata poi fermata dalla polizia almeno un altro paio di volte.
Una volta stavo andando in bici nel mio nuovo appartamento a Mitaka quando fui colta di sorpresa da un tifone. Arrivai alla stazione completamente zuppa. Stavo cercando un modo aggirare della stazione, quando un poliziotto mi richiamò con il campanello e volle controllarmi, visto il mio stato. In quel momento fui però contenta, perché potevo chiedergli indicazioni stradali.
Ma in Giappone, c’è sempre da aspettarsi un controllo random della bici. Fui nuovamente fermata mentre mi precipitavo all’università. Ero in ritardo e di fretta come al solito. Quando mi fermarono, ero così preparata mentalmente che smontai subito e li anticipai: <<controllo bici, giusto? Fatemi prendere i documenti>>.
Devo essere sembrata così sicura di me che i poliziotti mi interruppero replicando: <<va bene, ti crediamo, puoi andare >>.
Rimontai in bici e me ne andai. Ero persino stizzita per il tempo che mi avevano fatto perdere. In queste situazioni, la domanda che continua a girarti nella testa è: mi avrebbero fermata se avessi avuto una faccia giapponese?
Altri stranieri, o cittadini non asiatici, sono stati protagonisti di esperienze spiacevoli anche senza stare in sella ad una bicicletta.
Questa ragazza mezza europea che frequentavo aveva tratti prevalentemente caucasici, e ciò ovviamente non la rendeva invisibile. Una volta fu fermata da un uomo il quale, affermando di essere un poliziotto, le chiedeva con insistenza di esibire il permesso di soggiorno. Lei gli rispose che era una cittadina giapponese e quindi non aveva un permesso, ma lui non sembrava crederle. La storia del visto da esibire non è comunque un evento raro.
Nel 2017 stavo correndo alla stazione per un colloquio. Quest’uomo di mezza età era in piedi davanti a me sulla scala mobile e non mi lasciava passare. Quando raggiunsi il piano superiore, masticai fra i denti un’ingiuria in italiano, ma lui fu veloce a urlare: <<baka gaijin! >> (“stupido straniero”, un insulto comune). Non mi conosceva, ma ha usato la mia faccia da gaijin – la mia faccia di straniera – per insultarmi. Che c’entrava la mia razza?
Ci sono molte storie come questa. Come il bambino mezzo italiano, nato e cresciuto in Giappone, che è stato vittima di bullismo a scuola ricevendo un foglio con su scritto hakujin (“bianco”) attaccato alla schiena. O anche Eriana Miyamoto, la ragazza mezza nera nata e cresciuta in Giappone, incoronata Miss Universo Giappone 2015 non senza proteste.
Cosa hanno in comune tutte queste persone? Il video di Youtube “but we’re speaking Japanese! – Ma stiamo parlando giapponese!” dà una risposta soddisfacente a questa domanda.
Un gruppo di ragazzi è seduto a un tavolo in una izakaya (una tipica taverna giapponese): tutti, tranne una donna, non sono evidentemente asiatici. La cameriera si sporge verso l’asiatica chiedendole le ordinazioni di tutti gli altri. Non importa quanto la cliente cerchi di dirle che è l’unica straniera lì dentro, la cameriera non lo capirà mai.
Probabilmente perché, nonostante le informazioni fornite verbalmente, c’è una voce non verbale che però parla più forte.
Parimenti all’Italia, il Giappone è un Paese etnicamente omogeneo, e solo negli ultimi anni si sta iniziando ad affrontare il discorso della discriminazione razziale che resta un tabù – soprattutto per l’aumento dei bambini nati da unioni miste. E’ un Paese dove essere “puri” giapponesi è ancora molto importante, e dove atti di discriminazione sono stati (e probabilmente continuano ad essere) largamente impuniti. Mentre gli Stati Uniti sono nel pieno dello scontro etnico, Il Giappone sta iniziando lentamente a colorarsi, e le questioni legate alla razza stanno cominciando a venire a galla.
Tornando alla sit-com, io comprendo sia Willy sia Carlton: capisco l’incapacità di Carlton di cogliere appieno la realtà della discriminazione; d’altra parte, posso entrare in empatia con la frustrazione di Willy di essere considerato un cittadino di seconda classe.
La colpa è della polizia? Essa è lo specchio delle paure e delle idee sbagliate della gente. Lavorare sulle persone per lavorare sulle loro forze dell’ordine, questa è forse la più grande sfida di oggi per i cittadini americani.
Ma per ora, la somiglianza tra la sit-com e la mia esperienza di vita mi ha dato da pensare.
E lo schiaffetto di Willy non ha mai picchiato così forte.
Non importa quanto ti sforzi di adeguarti agli altri, il tuo viso e il tuo corpo parlano prima di te.
Ho sentito di altre storie simili in Giappone vissute da giovani amici di pelle bianca. Giusto però sottolineare che il problema è legato alle reazioni istintive di difesa e di riconoscimento tribale (all’interno della tribù di appartenenza). È capitato qualcosa di molto simile ad un’amica di pelle gialla: mentre cercava casa in affitto in Italia, si è sentita dire da una proprietaria:” Io non parlo con te, ma solo con la tua amica italiana!” Peccato che lei fosse Italiana! C’è un profondo e complesso percorso culturale da sviluppare.
Buongiorno, grazie per la sua osservazione.
E’ giusto quello che dice, ed in effetti avrei voluto sviluppare di più il discorso inglobando anche l’Italia, ma non ho proseguito per ragioni di lunghezza. La questione è, infatti, molto più complessa, e riguarda la contrapposizione del “noi” contro “voi”, che, pur non essendo solo circoscritta ad essa, si riflette in maniera più immediata nella distinzione visiva delle persone (prima ancora di analizzare da dove viene quella persona, è la sua differenza fisica che salta all’occhio e ci fa capire che “non appartiene a noi, non è come noi”). Non a caso credo che il Giappone presenti diverse analogie con l’Italia, soprattutto per l’abitudine – o la convinzione, non necessariamente corretta – ad identificarsi come un popolo omogeneo per etnia, cultura e religione. Per la questione degli asiatici discriminati in Italia, ci sarebbe molto ancora da discutere, e ancora di più sulla questione dei ragazzi di etnia mista (i cosiddetti “half” in giapponese) che non si sentono appartenere al Paese dove sono nati e cresciuti, da dove si sentono sempre respinti in un modo o nell’altro, ma nemmeno al Paese che la comunità ritiene sia la loro vera casa.
Sulla questione interraziale e sulle sfide sociali che sta generando ci sarebbe molto da dire, e spero che potremmo approfondire il discorso ancora.